Don
Milani precursore del ’68 e del ’69?
Firenze 18 settembre 2019
Incontro Centro Studi Cisl Firenze – Corso
Contrattualisti
Traccia
Intervento Francesco Lauria
'67-'68'- 69: Confronto con Luciano Pero
e Bruno Manghi
Gli
usi della parola…
“Facciamo chiarezza.
Gira in rete questa
falsa citazione rodariana: «Vorrei che tutti leggessero, non per diventare
letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo».
Qualche giorno fa l'ha
condivisa una cara amica qui su facebook e le ho fatto notare l'errore.
Poi incuriosita sono
andata a vedere google e lì ho trovato decine di foto e meme con la citazione
(sbagliata) suddetta.
Quella buona invece
dice così:
"Tutti gli usi della parola a tutti: mi sembra un
buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma
perché nessuno sia schiavo".
La cogliete la
differenza? Beh Rodari sì la coglieva: tutti gli usi delle parole è un motto
che passando da Barbiana rivendica storicamente l'importanza del possesso della
lingua, perché le parole uguali rendono liberi.
Non la lettura che ne
è semmai una conseguenza. Si possono imparare parole leggendo ma anche
ascoltando e dialogando.
Non c'è nessuna gerarchia
nelle parole di Rodari: il testo scritto non viene prima, non rende migliori.
Un bel punto di vista,
dal suono democratico.
Vanessa Roghi, 18 settembre 2019
Disobbedire a scuola…
“Ho
imparato a disobbedire a scuola. Non in senso negativo. Parlo di disobbedienza
culturale. Per disobbedire bisogna conoscere, bisogna sapere, bisogna studiare.
Sono diventato culturalmente, mentalmente, disobbediente proprio tra i banchi
di scuola, perché ho avuto l’occasione di conoscere me stesso, di imparare. Se
avete questa possibilità, e ce l’avete, cercate di imparare il più possibile.
Soltanto attraverso la cultura si può imparare a dire di sì, dicendo di no.
Scegliendo la propria dimensione, la propria strada. (…) C’è sempre spazio
dentro di noi: per tutto quello che c’è stato e per quello che c’è. La cultura
fondamentalmente è questo: crearsi dei varchi nella vita, come tante piccole
finestre. Più cose sai, più finestre hai attraverso le quali guardare il mondo
(…) Bisogna essere migliorativi: se non si è migliorativi si tende a far del
male al pianeta in cui viviamo. Quando dico pianeta intendo anche le persone
che ci stanno intorno, fondamentalmente il mondo siamo noi: siamo migranti del
tempo. Attraversando questo tempo dietro di noi lasciamo delle tracce e il modo
migliore per lasciare delle tracce è il cuore delle persone, le loro menti, i
destini degli altri (…) Fate in modo, ragazzi, di non sprecare nemmeno un’ora
del vostro tempo.”
Ermal Meta, cantautore,
“Tutti a scuola, Taranto, 18 settembre 2017”.
Perché un libro su Don Milani e il mondo del lavoro (Quel filo teso tra Fiesole e Barbiana, Don Milani e il mondo del lavoro).
L’idea
non del libro, ma di approfondire il messaggio di Don Milani rispetto al
sindacato e alla Cisl, nasce nel giugno 2017. Dai due momenti che ricordo nel
testo:
·
la preghiera di Papa Francesco sulla tomba
prima di Don Primo Mazzolari e poi su quella di Don Milani
·
la settimana successiva con l’incontro con
Papa Francesco in occasione del congresso della Cisl.
Di lì è nata la necessità
di risalire a Barbiana e l’incontro con la testimonianza e il libro di Michele Gesualdi, “L’esilio di
Barbiana”, e, anche a causa della malattia di Michele, con la figlia Sandra.
Tutto il 2018 è stato
dedicato a questo a rilanciare e rafforzare il filo teso tra: “Fiesole e
Barbiana”, con due mostre presso il Centro Studi: “Barbiana, il silenzio che
diventa voce” e: “Gianni e Pierino. La scuola di Lettera a una professoressa”,
una serie innumerevole di visite guidate e di confronti, tante salite a
Barbiana e uno spettacolo sferzante e spiazzante con cui abbiamo terminato il
percorso del corso contrattualisti 2018: “Cammelli a Barbiana”.
Si tratta di un filo che
non si è mai spezzato, nel corso dei decenn, infatti tantissimi gruppi
sindacali hanno percorso il tragitto di circa un’ora che separa la collina di
Fiesole da quella di Barbiana.
Non
ci serve un Don Milani, così come non ci serve un Carniti in pillole.
In questo percorso fatto
di incontri, testimonianze, interrogativi, Non abbiamo costruito un’icona. L’altro
rischio è quello di mitizzare una figura, come quella di Don Milani, senza
cogliere il profondo nesso, prima a Calenzano, poi a Barbiana, con il suo
“popolo”. Due contesti diversissimi, uno industriale, come quello a cavallo tra
Prato e Firenze, uno agricolo, montano, direi, disperso, come quello di
Barbiana.
Dobbiamo quindi approcciare
una figura che si “staglia” come quella di Don Milani e calarla nei contesti
sociali (senza dimenticare la sua provenienza familiare e, in particolare, il
rapporto con la madre).
La
seconda edizione
Questa seconda edizione,
che presentiamo oggi, include un testo in memoria, ma allo stesso tempo anche
uno scritto di Maresco Ballini, l’allievo che è punto di congiunzione tra
Calenzano, Fiesole e Barbiana. Come ci insegnava Pierre Carniti, non siamo qui
per celebrare o autocelebrare. E’ questo la miglior via per dimenticare.
Noi vogliamo “ricordare
insieme”, con occhi nel mondo.
L’altro grande tema
approfondito nella seconda edizione è quello de L’obbedienza non è piu una
virtù. C’è qui sia l’approccio storico (la “germinazione fiorentina”, per dirla
con La Pira dell’obiezione di coscienza), sia una quello delle esperienze
individuali (Franco Bentivogli, Maurizio Locatelli) che quell’dell’attualità
(da Don Milani a Konrad, l’elemosiniere “disobbediente” di Papa Francesco).
C’è una frase della
Lettera ai giudici che ne precede una celeberrima che credo sia utile ricordare
qui: “Dovevo ben insegnare come il
cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come
il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come
ognuno deve sentirsi responsabile di tutto… I Care”
Un’immagine che vi voglio
proporre è quella dell’Astrolabio.
Abbiamo scelto
l’Astrolabio del sociale anche come simbolo del Premio Pierre Carniti. E’ il
simbolo dell’intreccio tra studio e lavoro. Dell’imparare facendo e, grazie a
questo, del trovare una direzione, meglio la propria direzione e affermazione.
In questo c’’è poi il
grande messaggio di Lettera a una professoressa. Del rapporto tra i “Gianni” e
i “Pierini”: “Se si perde loro (i ragazzi
più difficili) la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e
respinge i malati”.
Non dimentichiamo, nel
cominciare a riflettere sul rapporto tra l’esperienza di Don Milani e della sua
scuola, con il sindacato, il ruolo di Lettera a una professoressa
nell’ideazione e implementazione di una scuola diversa per adulti: la grande
esperienza delle 150 ore per il diritto allo studio e il progetto, dopo la
scuola popolare di Calenzano, di una scuola sociale a Firenze, mai realizzata
per la Fondazione Lavoratori Officine Galileo.
Don
Milani, il lavoro, il sindacato
“Praticare
l’amore, con la politica, il sindacato, la scuola..”,
è una frase molto celebre del priore di Barbiana.
Don Milani e il suo
rapporto con il lavoro e il sindacato sono i temi conduttori di: “Quel filo
teso tra Fiesole e Barbiana.
Una frase che però non è
sufficiente per comprendere la ricchezza e la peculiarità, il fortissimo legame
che c’è nel percorso sociale ed educativo di Don Milani con il lavoro e la sua
rappresentanza.
Sono tanti, ad esempio, i
contratti di lavoro presenti nella canonica in cui i ragazzi facevano scuola.
Il primo testo pubblico a
noi conosciuto di Don Milani è del 1949 nella rivista Adesso di Don Primo
Mazzolari. L’articolo racconta di Franco, giovane disoccupato di Calenzano. Don
Milani si rivolge a lui con una frase fulminante: “Perdonaci tutti, comunisti,
industriali e preti”.
In questa frase si
riassume mirabilmente la crisi profonda, l’inadempienza, la miseria del
capitalismo, del comunismo e dell’istituzione ecclesiastica, le “ideologie”
dominanti del tempo.
Tornando al rapporto con
la Cisl e con il Centro Studi di Fiesole, nel libro proprio Agostino Burberi
riporta l’immagine di Don Milani in lambretta che incontra Luigi Macario al
Centro Studi per perorare la causa di Maresco Ballini, che era destinato ad
essere inviato nell’alto milanese e che Don Milani avrebbe voluto trattenere in
Toscana, vicino alla madre del suo allievo, rimasta vedova.
Agostino, Paolo Landi,
entrambi i fratelli Gesualdi ci raccontano del “filo” teso con il sindacato dei
tessili, anche se non va dimenticato che, ad esempio, Michele Gesualdi incontra
il sindacato in Germania. Paolo Landi, come tanti altri allievi e come tanti
giovani italiani di oggi, va a lavorare a Londra.
Una dimensione
cosmopolita, anche attraverso il lavoro, che è, appunto, di insegnamento anche
per il tempo presente.
Scriveva Don Milani, da
San Donato al regista francese Maurice Cloche nel 1952: “Il disoccupato e l’operaio di oggi dovranno uscire dal cinema con la
certezza che Gesù ha vissuto in un mondo triste come il loro, che ha come loro
sentito che l’ingiustizia sociale è una bestemmia, come loro ha lottato per un
mondo migliore”.
Se poi ci avviciniamo
alla lettera ai giudici, all’obbedienza non è più una virtù penso sia
significativa la pubblicazione, nel libro, il documento dei lavoratori del
nuovo Pignone e di altre aziende fiorentine a sostegno dei sacerdoti fiorentini
che si erano pronunciati per l’obiezione di coscienza.
Il laboratorio fiorentino: Pistelli, Turoldo, Balducci, La Pira,
Benedetto de Cesaris. Un pensiero che coinvolge la Cisl e il suo Centro Studi
Fermento preconciliare:
“E’ tempo di costruire: tempo eccezionale della storia della Chiesa. Finisce
un’epoca e una nuova sorge” (Giorgio La Pira).
Don
Milani, Lettera a una professoressa e il ‘68
Quando nell’autunno 1967
prese inizio nelle università italiane il ciclo di proteste studentesche, Lettera a una professoressa, ancora
fresca di stampa, divenne rapidamente uno dei testi più importanti di
riferimento della contestazione.
Il contesto in cui era
nata la Lettera era molto diverso da quello universitario e l’obiettivo della
sua pungente polemica non era il sistema accademico, ma la scuola dell’obbligo
e superiore.
Come giustamente è
scritto nel bel testo: “Salire a
Barbiana. Don Milani dal sessantotto a oggi (Velia, 2017)”, c’è da chiedersi se è vera l’ipotesi
di Lettera a una professoressa come un “fatto” nel pieno di quello che è stato
definito un unico ciclo di contestazione, partito nell’estate del ’60 a Genova
contro il governo Tambroni di centro-destra, passando per la mobilitazione dei
giovani operai di Piazza Statuto a Torino nel 1962. Allargando lo sguardo
possiamo citare i sit-in degli studenti di colore nel Nord Carolina nel 1962,
la nascita del Civil Rights Movement, e
le famose manifestazioni studentesche di Berkley, iniziate nel 1964 ed esplose
nel 1968.
I giovani compaiono
prepotentemente nell’agone sociale, come soggetto, portatore di proprie istanze
culturali e di partecipazione.
L’idea della Lettera
nasce nell’estate del 1966, quando due ragazzi di Barbiana, presentatisi per la
seconda volta come privatisti alla fine del primo anno dell’Istituto magistrale
di Firenze, erano stati nuovamente respinti.
La professoressa che
aveva “immotivatamente respinto” i due ragazzi rappresentava tutto un sistema
scolastico visto con gli occhi del ragazzo che era stato respinto. Il libro
metteva in luce la dispersione scolastica nelle scuole elementari e medie e che
le vittime principali della dispersione fossero le classi sociali più povere.
Denunciava le storture di un sistema che impartiva un’istruzione nozionistica molto
lontana dalla vita reale, funzionale a preservare e consolidare i privilegi
delle classi più ricche.
Le Lettera divenne uno
dei testi più citati, insieme a Guevara, Mao, Lenin, Marcuse, Dutschke. La si
leggeva in classe, nelle commissioni delle scuole occupate, in assemblea, nei
gruppi di amici, nelle parrocchie e nei gruppi cattolici.
Il contesto sociale in
cui era nata la Lettera era molto
diverso dalla realtà giovanile delle università italiane, era il mondo dei
contadini di montagna.
Nonostante ciò la lettera
fu un filo conduttore nella sfida all’intero sistema di istruzione dalla scuola
elementare all’università, affrontando la questione comune delle selezione e
del suo significato sociale.
La connessione tra scuola
e società, anche grazie a Lettera a una professoressa, divenne un tema cruciale
della contestazione.
Non dimentichiamo però
alcuni spunti da scritti precedenti come la Lettera ai giudici: “La scuola deve essere per quanto può un
profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le
cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso.”
In un'altra ottica
possiamo dire anche che Don Milani non è l’ultimo, ma il primo, non chiude, ma
apre. E’ spesso solo, ma non isolato.
Scrive Vanessa Roghi:
viene in mente, pensando a Don Milani, quello che scrive Alex Langer di un
altro educatore, Ivan Illich: “qualcuno ne rimane deluso e lo trova poco
organico, altri ne ricavano spunti decisivi per orientare la propria visione
del mondo.”
Cinquanta
anni dopo: quali parole per l’oggi?
La
parola: ai confini della città del lavoro. Quali sfide per il sindacato e le
associazioni laicali, per la scuola, l’Università e la formazione?
Papa Francesco: il suo
monito nel porci come sindacato tra profezia e innovazione.
Stare ai confini della
città del lavoro e aprire, rappresentare gli ultimi, coloro che sono ai
margini, nel mondo dei frammenti. Si vedano gli interventi di Maresco Ballini e
Michele Gesualdi al congresso Cisl del 1969 (Potere contro Potere, tema della sussidiarietà
e della “fine” della politica).
Scriveva Giancarlo Zizola
nel 1987 e le sue parole sono assolutamente attualissime: “Sono passati venti anni dalla morte di Don Milani e la parola ai
poveri continua ad essere un messaggio estremamente valido, purchè sia
reinterpretato alla luce della nuova condizione dei saperi tecnologici, oggi.
Noi viviamo in un processo di crescente omologazione. Il problema, quindi, non
è quello di dare la parola. Essa è data, ma è una parola che fa poveri. Questa
è la differenza fondamentale. E’ una parola che non libera più poveri, ma li
rende schiavi”.
Questo è uno dei punti
decisivi per la discussione.
Non è un caso che
Pasolini fosse molto affascinato dalla scuola di Barbiana.
Gunther Anders ha
definito la società consumistica come: “sirenico-spettacolare”. L’uomo odierno
sembra quasi completamente irretito e in questo contesto la presa di coscienza
e la radicale presa di responsabilità che ha insegnato Don Milani anche come
fine dei processi educativi e formativi appaiono sempre più difficili.
E’ questo irretimento che
favorisce etero direzione, controllo, manipolazione politico-mediatica,
crescita del conformismo, del populismo e oblio della consapevolezza liberante
dalla subalternità.
Che
fare?
Costruire un diverso modello
di sviluppo. Fridays for future?
Come? Stare dentro il
sistema e al tempo stesso spingerlo verso soluzioni alternative.
Noi dobbiamo renderci
conto che un mondo diverso è possibile e necessario.
Esportare il Metodo della
Barbiana del Mugello nelle Barbiane del mondo.
Costituzione, Resistenza,
nonviolenza. Punti di riferimento nella scuola di Barbiana e in quella di
Calenzano.
Stiamo perdendo gli
ultimi testimoni. Stiamo scivolando sui
valori fondamentali. Per questo non
dobbiamo mai fermarci, educare, educare ancora.
Una traccia di lavoro da
riscoprire: Pippo Morelli, ma anche su un terreno diverso Tullio De Mauro e
Alexander Langer, attraverso una formazione trasformativa.
Una proposta concreta per
abitare le periferie:
Reinventare nel tempo di
oggi le 150 ore per il diritto allo studio, la scuole popolari, (pensiamo al
tema dei migranti e delle nuove tecnologie, ma anche dell’analfabetismo di
ritorno e al lavoro come emancipazione per le fasce più fragili e deboli, alla narrazione
e al teatro) . E all’impegno del sindacato, attraverso la promozione del lavoro
come fatto sociale, relazione ed emancipativo, nelle frontiere più difficili
della società come, ad esempio tra i carcerati, gli alcolisti, i soggetti
affetti da dipendenze in generale. Su questo ci aiuta, fra le altre, la
testimonianza viva di Maresco Ballini, a partire dal suo intervento al
congresso nazionale della Cisl del 1969.
Conclusioni
Scriveva Balducci nel
1987 (Ci aspetta domani). Se noi ricostruiamo la realtà storica di
Milani, anche nella sua lontananza, tenendo conto della diversità della
situazione e poi la interroghiamo, scopriamo che Don Milani è uno di quei
maestri che non ci richiamano al ricordo del passato, ma che ci hanno dato
appuntamento nel futuro.
Soltanto una società e,
io aggiungo, un sindacato fondati sulla partecipazione cosciente e
responsabile, possono contrastare la globalizzazione neoliberista e rifondare
la politica e la rappresentanza, ricollegare etica, politica e diritto, ridare
pienezza ad una democrazia spesso ormai solo formale.
Forse, ancora di più,
senza rinunciare ad un profilo di senso, dobbiamo ripartire dalla società dei
frammenti, come ci insegna Ivo Lizzola. Ripartire dal cooperare e da una
comunità inclusiva, da luoghi apparentemente deboli e periferici come le
montagne spopolate (le Barbiana di oggi) nella megalopoli interconessa e
supersonica globale.
In tutto questo Don
Milani e i suoi allievi ci hanno lasciato un percorso peculiare che incontra il
valore del sindacato come strumento comune della giustizia, come luogo
educativo, trasformativo, esperienziale di una società più giusta. A partire
dagli ultimi, anche nel lavoro. A partire da quella dimensione planetaria che
ha a cupre l’umanità e la terra.
Il lavoro come cura, il
sindacato come tessuto di uguaglianza.
Lavoro e sindacato di
ieri, di oggi, ma certamente, pur con profondissime trasformazioni, di domani.