DALL'ECLISSI DI PARTECIPAZIONE E RAPPRESENTANZA ALLA MULTIFORME CRISI DEL SINDACALISMO CONFEDERALE ITALIANO
Ieri sera, appena finiti i lavori del Turi Network a Copenhagen (rappresento ancora, ufficialmente, la Cisl e, indirettamente, anche la Fondazione Ezio Tarantelli) mi sono precipitato nella mia bella camera dell'Hotel Tivoli per collegarmi con la Fondazione Bruno Buozzi (proprio il socialista riformista Buozzi che, qualcuno, avrebbe voluto, inopinatamente, cancellare dal "pantheon" della Cisl. Per fortuna, a leggere la corretta targa depositata per il 75esimo Cisl al Teatro Adriano, l'operazione, grazie al Prof. Aldo Carera, sembra essere fallita).
Non dovrei dirlo io, sono di parte, ma la riflessione plurale condivisa con Marco Zeppieri, Giorgio Benvenuto, Mattia Scolari, Gaetano Sateriale sull'ECLISSI DELLA PARTECIPAZIONE E DELLA RAPPRESENTANZA è stata molto interessante, piena di prospettive, anche internazionali, del tutto scevra di livore (che sarebbe stato anche in parte giustificabile viste alcune vicende personali e non parlo solo della mia...)
Chi si fosse per il dibattito, magari anche a Via Po 21,(che, pur con numeri sindacali è andato molto bene nei diversi canali e piattaforme in cui è stato pubblicato) lo può recuperare qui:
Abbiamo anche realizzato un confronto tra (tre) diverse prospettive e culture sindacali confederali ed il sindacalismo di base (pur proveniente, è il caso della Cub, da una matrice culturale notoriamente e direi, soprattutto per quel che riguarda Cub Milano, ostinatamente di origini cisline).
Una cosa, obiettivamente, piuttosto rara.
Ma, devo essere sincero, sono dispiaciuto di aver letto dopo e non prima il dibattito le illuminanti e completissime riflessioni elaborate da un dirigente di grande valore della Cgil sulla crisi del sindacalismo confederale italiano: Alessandro Genovesi (quello che ha fatto ritirare a Papa Francesco la tessera onoraria della Fillea, la categoria degli edili di cui, all'epoca, era segretario generale...)
La riflessione profonda di Genovesi che si rivolge alla Cgil, ma che risulta valida, almeno per il 99% anche per Cisl e Uil, vista la mia personale dolorosa esperienza, nella confederazione di Via Po, potrebbe meritare qualche diffamazione per "tradimento", confederali, magari una o più diffide e l'annuncio di una possibile richiesta di pignoramento per danni di immagine (provare per credere...ahimè).
Per sua fortuna Genovesi è, invece, iscritto alla Cgil e a Corso d'Italia (un po' come Gaetano Sateriale nel suo recente, bellissimo libro...) le canta davvero chiare.
Illuminante il suo climax su una crisi (declino?) multidimensionale del sindacato confederale italiano:
- crisi del cosa;
- crisi del dove;
- crisi del quando;
- crisi del perchè;
. crisi del chi.
Invito tutti e tutte alla lettura delle parole di Alessandro Genovesi, illuminanti ed efficaci. (Francesco Lauria)
"(...) La crisi del sindacato confederale e, per quanto mi riguarda la crisi della CGIL, è una crisi profonda che dura da diversi anni, forse dai primi anni 2000, e chiama in causa diversi aspetti fondamentali, dentro possibili scenari, oggi per alcuni versi inediti, che dobbiamo scongiurare (prima fra tutti il bipolarismo sindacale, che ora è esploso in tutta la sua portata), sapendo che non tutto dipendente da noi, ma che quel “poco o tanto” che è nelle nostre mani, va agito con lungimiranza e profonda attenzione al contesto reale in cui agiamo, senza rinunciare alla nostra idea per cui "governo e conflitto", "partecipazione e rivendicazione" sono il sale della democrazia dei moderni.
Per usare le 5 “doppie v” del giornalismo (Who- chi, what-cosa, where-dove, when- quando e why-perché) la nostra è a mio parere una crisi prima di tutto del “cosa”.
Cosa deve essere oggi un sindacato confederale, quale missione deve avere, quale campo da gioco deve praticare, quali alleanze sociali deve ricercare e alimentare, rilanciando una difficile ricomposizione del tanto disperso e frammentato, ma anche del tanto lavoro professionale e ad alto valore aggiunto.
Cosa ricercare per individuare terreni vertenziali e contrattuali che possano unire in chiave solidale le tante differenze e dare protagonismo al lavoro in trasformazione (operaio, tecnico, pubblico, privato) e portarlo nella società, in un’idea più generale – ma a contempo concreta e praticabile – di altro modello, produttivo, sociale e quindi culturale.
E’ (o dovrebbe essere) questa l’ansia principale che oggi non dovrebbe farci dormire la notte: nella società dove la tecnologia (dall’algoritmo all’IA generativa) già è espropriatrice di valore senza limiti di spazio e tempo, dove la componente ambientale è parte del modello (o della sua crisi), dove la transizione sta già facendo morti e feriti (ricollocando quote di occupazione da altre parti), dove l’inedito demografico sta già cambiando il nostro welfare, dove la dimensione dell’intervento pubblico è dilatata (crisi dello stato nazionale, funzione dell’UE, polarizzazione dei mercati e della geo politica), quale ruolo della politica economica, quali assetti contrattuali, quali strumenti, quale funzione dentro i luoghi di lavoro e dentro il mercato del lavoro deve avere un’organizzazione che non si vuole ridurre ad essere “gilda dei professionisti” o “ospedale da campo degli sfigati”?
Ma anche quali vertenze sindacali, quali rappresentanze da coltivare, oltre le confort zone, dovrebbero diventare pratica ordinaria, ricercando il “buono e utile” nelle tante esperienze - dal terziario all’edilizia, dalla logistica all’agro industria a diversi settori del pubblico impiego - superando anche una visione tutta incentrata sull’esigenza di avere un unico modello (contrattuale, organizzativo, finanche di pensiero) anche tra noi?
Tutele dentro il posto di lavoro, tutele lungo la filiera produttiva (appalti, forniture, lavoratori autonomi, ecc.), ma anche tutele nell’accompagnare da un lavoro ad un altro, da un fabbisogno professionale ad un altro, sono forse questi i terreni oggi più fecondi da coltivare e da praticare, anche con forme miste pubblico-privato, anche con un ruolo “produttore” del sindacato.
Ma allora siamo preparati, i gruppi dirigenti sono all’altezza, i nostri modelli organizzativi in azienda, lungo le filiera e sul territorio sono adatti così come sono e le risorse sono allocate in modo funzionale?
Ma oltre al “cosa”, la nostra è una crisi anche del “dove”.
Dove siamo realmente nelle mappe sociali e produttive di questo Paese? Dove vogliamo stare e dove dovremmo essere in questa o quella provincia? Quanto conosciamo realmente i nuovi capisaldi della produzione materiale, di servizi ed immateriale? Quanto tempo ed energie dedichiamo a stare dove non stiamo (o non stiamo più)?
Il territorio non è una polverosa Camera del Lavoro, come qualcuno pensa, non è la mera tutela individuale, per quanto importante. E’ il presidio del diffuso con strumenti adatti alle esigenze di quei lavoratori, per cui noi dobbiamo adattarci ad essi (e non certo l’opposto).
È il presidio dei luoghi della produzione fisica, polverizzati e molecolari, ma è anche il presidio degli “spazi professionali”, degli spazi di costruzione di nuovo senso nel produrre, della deideologizzazione del lavoro e finanche del suo valore economico, in una polarizzazione sempre più spinta tra fasce sociali ma anche tra territori.
Ma allora serve una profonda riforma anche del modello camerale, non basta dire "meno verticalità" se poi la nostra "orizzontalità" è vecchia, non funziona più o funziona molto di meno (penso di poterlo scrivere avendo, in nome della circolarità, fatto anche il Segretario Generale di una Camera del Lavoro e di un piccolo regionale confederale).
La Camera del Lavoro tornerà centrale (e deve tornare centrale) solo se si ripensa, si riorganizza come grande piattaforma sociale che fa del neo mutualismo, dell’integrazione multi culturale, dell’organizzazione di risposte concrete ai bisogni immediati (dai disoccupati ai tanti lavoratori soli, in piccole e piccolissime aziende, con carriere discontinue) la propria missione, per tradurre e organizzare poi quei bisogni e quelle persone in vertenze sociali: dalla casa ai trasporti, dall’accesso alla formazione permanente al diritto allo studio universitario, al governo dell'invecchiamento attivo e di un nuovo rapporto anche "sociale", di accesso ai diritti, tra generazioni.
Ma “deve sporcarsi le mani”, deve organizzare le risposte ai bisogni, sperimentare, tra bilateralità e prestazioni dirette, forme di collocamento, di aggiornamento professionale, conoscenza delle diverse opportunità offerte, guardando ad esperienze anche molto vicino a noi che hanno già allargato modelli di rappresentanza (dall’impegno sociale dell’Auser ai corsi di italiano per stranieri che Flai e Fillea già fanno in autogestione, dal modello Casse edili da estendere nel diffuso e frammentato alla promozione e partecipazione a imprenditoria sociale, cooperative ecc. per esempio per il diritto alla casa), che altro non è – in fondo – che tornare al modello originario, quando il pre fordismo e il pre taylorismo aveva tanto il sapore del nuovo c.d. “post fordismo”.
La nostra è una crisi anche del “quando”.
Quando si tornerà a discutere di organizzazione del lavoro, di crescita professionale, di funzioni del cosa produrre e perché? In una rincorsa permanente da un’emergenza ad un’altra, da una chiamata alle armi ed un'altra (e un Governo fascistoide ti impone una parte dell'agenda, fosse solo per difendere la Costituzione materiale e sostanziale del Paese), quando ci fermeremo a capire cosa non ha funzionato di una strategia lunga quasi un ventennio, di scelte che si sono dimostrate non in sintonia con la domanda espressa da gran parte del mondo del lavoro (pensiamo ai tanti milioni di lavoratori dipendenti che non hanno votato al referendum nonostante la bontà dei quesiti in se)?
Quante occasioni abbiamo perso e come recuperarle (penso al grande potenziale che ha ancora oggi il Testo Unico sulla rappresentanza del 2014 con il suo portato sulla democratizzazione della contrattazione collettiva, ma anche sulla certezza di ruoli e funzioni)?
Quando ci fermeremo anche a dirci che abbiamo smesso di organizzare vertenze in modo diffuso, che siamo forse stati radicali quando dovevamo essere più pragmatici e siamo stati subalterni e deboli quando dovevamo invece essere soggetti attivi di scontri sindacali anche importanti (quanto siamo timidi nella lotta al lavoro nero in molti settori, quanto siamo ipocriti nella non gestione degli effetti della destrutturazione dei cicli produttivi, lasciando ad altri per esempio il vasto mondo dei lavoratori in appalto, in fornitura ecc.; quanto siamo stati poco lungimiranti nello smantellare una serie di strumenti come gli uffici migranti proprio mentre predicavamo gli effetti della crisi demografica; quanto poco investiamo sulle figure intermedie, sui quadri, sui nuovi ibridi tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, per non dire di settori dove oramai lavorano milioni e milioni di persone, di cui non conosciamo bisogni e condizioni, ecc.).
E’ una crisi, quella del sindacato, che è crisi anche del “perché”.
Perché serve oggi il sindacato, perché uno dovrebbe scegliere di essere un militante o un delegato sindacale? Perché dovrebbe dedicare tempo, conoscenze, passioni per una vita fatta magari di discriminazione sui posti di lavoro, di sacrifici e – se vuole cimentarsi a tempo pieno - bassi salari (al di là della propaganda fascistoide contro gli stipendi dei sindacalisti)?
Perché i migliori e le migliori rimangono spesso in azienda e al sindacato stanno entrando sempre più figure professionali basse? Sarà politicamente poco corretto scriverlo così, ma fingere che questo impoverimento di professionalità e competenze non sia diffuso non risolve certo il problema.
E se non puoi competere sui “salari” allora devi competere sul valore di un’esperienza, sull’arricchimento emotivo, simbolico e identitario: devi compensare cioè con un senso di “missione”, di impegno dalla parte giusta della storia, alimentando il principio di militanza tutti i giorni, rafforzando il senso di “comunità”.
Una comunità aperta, accogliente, che sa valorizzare il portato di tutte e tutti.
Ma allora dobbiamo dirci anche che, nella crisi della politica e della sinistra, siamo immersi da anni pure noi, e che - dopo aver rinunciato ad ogni funzione pedagogica, dopo aver abbandonato la complessità come categoria di pensiero e pratica collettiva tra di noi e tra i lavoratori – anche in Cgil ci siamo buttati nella smaniosa ricerca di semplificazione, di populismo (“destra e sinistra sono uguali”), di una scorciatoia che altro non è stato che segare il ramo dell’albero dell’impegno collettivo su cui siamo seduti.
La crisi del senso di militanza (certo nel contesto complesso della crisi dei partiti di massa e della loro trasformazione in meri comitati elettorali che ha influito non poco) è diventa crisi della capacità di attrarre i migliori.
Forse molte delle sconfitte di questi anni, dei passi indietro del mondo del lavoro organizzato, potrebbero essere letti, magari anche solo parzialmente, con queste lenti.
Ed infine, inutile girarci intorno, siamo in una crisi anche del “chi”. Chi sono oggi i gruppi dirigenti della Cgil? Quanto siamo autoreferenziali? Quanto viviamo in una bolla ideologico-burocratica per cui ci raccontiamo il mondo per come lo vorremmo e non per come esso sia in realtà?
Sia chiaro tra questi dirigenti che hanno sbagliato o che non hanno visto o che non hanno avuto la giusta dose di coraggio mi colloco io per primo.
Quanto ho premiato la fedeltà nella selezione che ho contribuito a fare in tutti questi anni, quando ho potuto, dei gruppi dirigenti e quanto invece il merito?
Quanto ho visto se prima di tutto il compagno o la compagna avessero competenze, avessero organizzativamente rilanciato la struttura che in quel momento dirigevano, se avessero aumentato o diminuito il tasso di rappresentanza, se avessero sperperato i soldi dei lavoratori o gestito invece con attenzione e oculatezza tale patrimonio?
E nel merito degli accordi fatti, della capacità di dare maggiori tutele concrete, finanche della capacità o meno di allargare alleanze e guidare processi tanto acquisitivi che difensivi, ho contribuito a riconoscere meriti e demeriti?
Quanto ho investito sulla dimensione collettiva dei gruppi dirigenti della SLC quando ero Segretario nazionale o quando ero Segretario generale della Cgil Basilicata? E quando ho avuto l’onore di dirigere la Fillea Cgil, quanto di più potevo e dovevo fare per valorizzare le tante competenze, generosità, passione di decine e decine di compagne e compagni che pure ci sono e a cui devo io per primo tanto?
E quanto ho spinto per investire sulla loro crescita politica, finanche in dialettica e contrapposizione, nel merito, con il sottoscritto? Quanto ho fatto del dovere di sintesi, di tenere unito un collettivo, la mia principale ossessione?
Oppure, in un’esaltazione ormai delle leadership forti, io per primo ho subito” un’egemonia” dei tempi odierni, una “rivoluzione passiva”?
Perché allora la mia autocritica è prima di tutto sul fatto se ho alimentato o no il modo corretto di stare in una organizzazione di massa quale è e punta a rimanere la Cgil.
E me lo chiedo, senza artifizi retorici (la mia amica Serena mi accuserebbe di essere un nostalgico, ma non sono per buttare tutto di quel pezzo di Novecento che mi ha plasmato), perché oggi non sono più tanto convinto che tutti i dirigenti della nostra organizzazione sappiano veramente come si dovrebbe stare dentro la Cgil.
Troppi anni di di mimetismo per dirla con le parole di Trentin, di ipocrisia, di “federalismo” politico organizzativo - spesso sconfinato in “secessione di fatto” - hanno creato mostri. Il peggiore forse l’unanimismo di facciata e il pettegolezzo dei corridoi, la promozione dei più fedeli e non dei più bravi e brave; il fastidio quasi al dibattito, al dovere della sintesi, al rispetto profondo non di forma ma di sostanza per idee diverse.
Ritengo che la Cgil, nel suo vasto corpo diffuso di militanti, delegati e dirigenti, abbia ancora tutte le risorse per affrontare questi nodi, per rilanciarsi, finanche per rifondarsi nelle sue pratiche di fondo, nella sua cultura di comunità politica, nei suoi modelli organizzativi e nella sua politica dei quadri, ma il tempo non è più una variabile così indipendente e la passione una risorsa di per sé inesauribile.
Dovremmo forse avere tutti oggi la lucidità di metterci a disposizione di altre generazioni e di altre esperienze, ma a condizione di esercitare e praticare una riflessione ed un confronto che siano di per sé anche momento pedagogico, dimostrazione concreta di vitalità intellettuale e organizzativa, di valorizzazione di differenze, praticando un po' di più (senza esagerare, non siamo un cenacolo di filosofi) il dubbio e un po' meno certezze che, qualche volta, sanno di fastidio verso il pensiero altrui. Usando tutte le sedi che una grande organizzazione ha sempre a disposizione.
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