Il compagno di ogni “ante-mattina”, lo
schermo del cellulare, infatti, è disperso, introvabile.
Per fortuna, nel buio degli ultimi
scampoli della notte, l’appartamento è grande.
Jacopo, mio figlio, dorme profondamente
nel letto a castello sopra il mio, mentre ascolto di sfuggita il suo respiro e
un tuono, per fortuna lontano.
Il rito di ogni mattina, il duplice caffè,
la colazione con sempre almeno due yogurt greci, le medicine per la pressione e
per il colesterolo, è movimentato dal luogo che una volta avremmo chiamato “di
villeggiatura”. Non ricordo, però, dove ho messo tutto.
Apro la porta, ascolto, rapito, i rumori
del risveglio del bosco, ne sono ai confini, a oltre mille e cento metri
d’altezza.
Una mattina così, non la ricordavo da un
po’, accompagnata dal profumo e dai suoni della natura e sfiorata dal fresco,
quasi dal freddo. Una benedizione dopo i primi due terzi di agosto davvero
torridi.
Ho “divorato” l’ultimo lascito su
Alexander Langer di Goffredo Fofi attraverso il volume collettivo da lui curato.
Prendo ora in mano il quasi omonimo: “Continuate
in ciò che è giusto. Storia di Alexander Langer”, del mio pressochè
coetaneo (mannaggia a lui, è degli anni ottanta, di un anno più giovane di me)
Alessandro Raveggi.
La camminata nel bosco della notte
precedente, illuminata dalle torce che si portano sulla testa, niente di avventuroso,
sono state comprate al Decathlon di Prato, mi aveva fatto, di nuovo, pensare di
sfuggita ad Alex, “viaggiatore notturno”, saltatore di muri, costruttore di
ponti.
Indovinare, al buio, gli alberi non mi
aveva fatto dimenticare, quel maledetto (sì maledetto!) albicocco, attraverso
il quale, Alex trent’anni fa, il 3 luglio 1995, a Pian dei Giullari, a Firenze,
la quasi mia Firenze, si è tolto la vita. A soli quarantanove anni.
Nel suo libro Raveggi, ho scoperto in
questa “antemattina”, compie un viaggio che ho sempre pigramente rimandato: la
camminata sulle orme di Alex (che in realtà raggiunse, per l’ultimo viaggio,
Pian dei Giullari in auto) e la ricerca, pur infruttuosa, di quell’albicocco.
Scriveva Langer:
“Gli alberi stessi non si vedono le radici,
eppure viaggiano, migrano. Non hanno bocche, ma parlano, avvertendo i loro
simili in caso di pericolo. Ma loro: saranno mai tristi, infinitamente percossi
marciti dentro come fuori?”
Risuonano in me, da settimane, le frasi,
profetiche e soffertissime, risalenti al 1990, trovate nel suo computer:
“Tu che ormai fai – il militante – da oltre 25
anni e che hai attraversato le esperienze del pacifismo, della sinistra
cristiana, del ’68 (già “da grande”), dell’estremismo degli anni ’70, del sindacato,
della solidarietà con il Cile e con l’America Latina, col Portogallo, con la
Palestina, della nuova sinistra, del localismo, del terzomondismo e
dell’ecologia – da dove prendi le energie per “fare” ancora?”
Già da dove e, soprattutto, anche io
perché prendo le energie per fare, per scrivere ancora?
Non so perché, ma anche a me, proprio
come a Raveggi, quelle frasi ricordano le manganellate e i lacrimogeni di
Genova, nel luglio del 2001, sei anni dopo esatti la morte di Alex.
Ricordano quell’essere percossi dal
potere e dai poteri della mia generazione, quel sentirsi soli, maledettamente
soli, senza partito, senza sindacato, senza orizzonti.
La memoria si confonde. È ancora mattino
presto.
Quando Alex si è tolto la vita, c’erano sì
i telefonini, ma internet era proprio agli inizi.
Non eravamo ancora iperconnessi come lo
siamo oggi (a meno che, come me, nella notte non li si perda i cellulari!).
Potevamo, forse, essere più lenti, più
soavi, più profondi.
Come, pur con qualche incoerenza, ci
invitava il turbolento e mai domo Alex.
Un capitolo del libro di Raveggi
scompagina le carte: “andiamo incontro al
tempo come esso ci cerca”, si intitola.
Già, quel tempo circolare, che riporta
Alex, il suo timido e il suo impegno ostinato, tra le nostre braccia, sulle nostre
spalle, come San Cristoforo con il bambino.
Quel kairòs
di Alex Langer che non ci abbandonerà mai, sia che ci troviamo a
Sterzing-Vipiteno, sia che camminiamo tra i monti della Garfagnana, terra di
quasi confine tra Toscana, Emilia, Liguria.
Immaginare altre vite, altre aurore,
senza perdere lo stupore, senza disperdere le parole, i suoni, gli odori, anche
la solitudine, del tramonto.
Padre Ernesto Balducci, tra Firenze e
Fiesole, ci narrava proprio della “terra del tramonto”, con una lezione di sostenibilità
e circolarità che non abbiamo ancora abbastanza meditato, rielaborato, rilanciato.
Una lezione che incrociava l’intuizione
profetica (ma non velleitaria) di Alex, quella conversione ecologica necessaria della società, come della
politica, come della singola persona che sarebbe importantissimo che il
sindacato facesse propria e promuovesse, non frenasse.
Ogni giorno, quando salgo a San Domenico
di Fiesole, alla volta del Centro Studi Cisl di Via della Piazzola, mi chiedo: “ha senso continuare?”
Dove lo trovo scritto, possibilmente nel
granito, o almeno nella pietra: “ciò che
è giusto”?
Come posso, come possiamo, continuare
sulla strada tracciata da Alex anche quell’ultimo, definito, ma non definitivo
giorno a Pian dei Giullari?
“Andiamo incontro al tempo come esso ci cerca”.
Trent’anni di kronos sono passati
dall’ultimo viaggio di Alex.
Eppure dobbiamo continuare a cercare,
ostinati come lui, ciò che è ancora e magari per sempre sarà giusto. O tale ci
apparirà.
Senza certezze, ma con quel cammino
leggero che travalica il tempo, oltrepassa i muri, costruisce ponti.
Tra i popoli, tra le persone, tra le
organizzazioni, tra le generazioni…
Grazie, Danke Alex.
Continuiamo a seguire, e qualche volta
anche a re-inventare, la nostra strada comune, inconsapevolmente, ma
testardamente condivisa.
Francesco Lauria
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