martedì 19 agosto 2025

«MIA PATRIA E' IL MONDO INTERO.» - "LA MIA RIBELLIONE E' VIVERE". LO SGUARDO VIVO DI ALBERTO TRIDENTE


In questi mesi di difficoltà e conflitti, molto aspri, ho pensato spesso ad Alberto Tridente.

Per due motivi: per la sua attenzione fortissima alla dimensione internazionale del sindacato e della politica e per il suo essere ponte tra mondi diversi: dalla formazione democristiana e dal suo essere stato allievo prediletto, al Centro Studi di Firenze, di Vincenzo Saba, fino al suo impegno sindacale politico che ha avuto la sua massima espressione nella sinistra sindacale, trasversale alle tre confederazioni e al Parlamento Europeo, con Democrazia Proletaria.
La dimostrazione vivente della "splendida anomalia" della Cisl.
Di Alberto, ricordo come fosse ieri, gli occhi: lo sguardo curioso sul mondo e sulle persone, un'intelligenza multiforme che si esprimeva tanto con analisi raffinate sulla dimensione globale quanto con la scrittura, piacevolissima, di favole per bambini.
Conobbi Alberto Tridente in una situazione particolare.
Mi trovavo a Torino, a sostituire un segretario confederale Cisl ad una festa nazionale di partito sul tema ambiente, sindacato e mercato del lavoro.
Erano i mesi di un dibattito che oggi appare abbastanza surreale, ma che in quegli anni, 2010 e 2011, era molto sentito: l’utilizzo volontario dell’arbitrato e della clausola compromissoria per «superare» l’articolo 18 nella tutela individuale rispetto ai licenziamenti.
A Torino, poi, era ancora particolarmente calda la rottura tra i sindacati metalmeccanici rispetto agli accordi Fiat.
Poco, però, di tutto questo c’entrava con il dibattito a cui dovevo intervenire e che vedeva presenti altri rappresentanti sindacali e datoriali, tra cui una segretaria nazionale della Fiom.
Ancor prima che potessi iniziare il mio intervento fui interrotto da una contestazione piuttosto vivace di alcuni cassaintegrati comunisti Fiat, il cui succo era: «Non ascoltiamolo, ci vuole venire a parlare di ambiente, un tema che non ci interessa e, invece, lui e la Cisl ci vogliono togliere l’articolo 18! Venduto, Venduto!».
Erano in prima fila un giovane operatore confederale del Dipartimento ambiente della Cisl e la mia compagna, futura moglie, a meno di un mese dal parto, che ebbero due reazioni opposte: il mio collega, sventolando tutto il suo marcato accento romanesco, si scagliò contro i contestatori rivendicando, contemporaneamente, il proprio orgoglio cislino e quello ecologista, mentre la mia compagna, comprensibilmente, invece si ritrasse, proteggendo istintivamente con le mani il pancione e Jacopo, il nostro bimbo che portava in grembo, e che sarebbe venuto alla luce solo due settimane dopo l’accaduto.
A un certo punto, approfittando di un istante di casuale calma, un signore alto, dalla barba grigia, ma non bianca, curata, si alzò lentamente.
L’aspetto che più mi colpì di Alberto Tridente fu, indubbiamente, lo ripeto ancora, la vivacità degli occhi. Uno sguardo inconfondibile che non era cambiato poi molto da quello del bambino di due anni della foto in bianco e nero, risalente al 1934, in cui ci si imbatte quasi subito sfogliando la sua bellissima autobiografia, pubblicata proprio nel 2011.(Dalla parte dei diritti. Settanta anni di lotta, Rosenberg & Sellier, Torino 2011).
Un testo in cui volle raccontare «settanta anni di lotta, dalla parte dei diritti» da dirigente nazionale e internazionale di Fim e Flm, consigliere regionale, parlamentare europeo e tanto altro ancora…
Tridente si alzò e con la sua autorevolezza mai arrogante zittì i contestatori.
Ricordò, e dentro di me le sue parole risuonano come fosse oggi, come i sindacati metalmeccanici italiani, riuniti nella Flm, seppero guardare avanti ed impegnarsi, pur tra mille necessarie cautele e difficoltà, da un lato, per la riconversione dell’industria militare (ad esempio Oto Melara) e, dall’altro, nello spingere alcune industrie piemontesi e non, pur con perdite significative, a non commerciare né con il Cile di Pinochet, né con il Sudafrica dell’apartheid, poi colpito dalle sanzioni della comunità internazionale.
Il succo della riflessione di Alberto Tridente era che ci sono temi di visione e, oggi, di stringente attualità in cui la persona e l’ambiente vengono prima del profitto e, in qualche caso, anche della certezza dell’occupazione.
Un discorso difficile e impegnativo, nel pieno della crisi globale, e di fronte a degli ultracinquantenni cassaintegrati Fiat, arrabbiati e frustrati, incapaci di comprendere come fossero, in quel frangente, contemporaneamente, vittime e carnefici di quella che, anni dopo, Papa Francesco avrebbe definito cultura ed economia «dello scarto».
Di lì nacque con Alberto Tridente un bellissimo incontro, oserei dire, con un po’ di pudore, una troppo breve amicizia, che incrociò lo scambio delle bozze dei nostri due libri in uscita: la mia monografia sulla storia delle 150 ore per il diritto allo studio2 e la sua, poderosa e bellissima autobiografia.
Dopo la nascita di mio figlio Jacopo mi regalò, apprezzando che il mio testo sulle 150 ore si aprisse con una favola, il libro che aveva scritto per il figlio Omer: una raccolta di storie fantastiche, spesso con protagonisti gli animali e la natura, molto belle, pubblicate con un carattere adatto a tutti i bimbi, ma volto anche a correggere i problemi di dislessia nei bambini, problemi che Omar, anche grazie alle sue favole, aveva affrontato e superato.3 Tornando al voluminoso tomo edito da Rosenberg & Sellier alla fine del 2011, esso rappresenta, in realtà, molto più di un’autobiografia, sia pur di un importante e originale dirigente sindacale e politico.
È uno sguardo unico e multiforme sulle trasformazioni del lavoro e della società a livello globale nel corso di quasi tutto il Novecento (il testo si ferma al 2003 tralasciando gli anni più recenti), che parte dalle case operaie di Torino nei primi anni Trenta e termina con la prima vittoriosa elezione dell’ex sindacalista clandestino Lula Ignacio Da Silva a presidente della repubblica brasiliana.
In mezzo c’è l’avventura umana, sociale, sindacale, politica di Tridente.
C’è lui insieme alle sue infinite, ma mai effimere relazioni che, dai sobborghi di Torino, hanno saputo estendersi in tutto il mondo, con una zona prediletta: l’America centrale e meridionale.
L’operaio e sindacalista torinese, prima con un originale racconto in terza persona, poi prendendoci direttamente per mano, ci fa entrare nella sua complessa e instancabile vita facendoci passare prima dalle follie coloniali del regime mussoliniano, poi per la Resistenza e la guerra civile che ha trafitto e diviso tante famiglie, compresa la sua, fino alla riconquista della democrazia e alla scoperta della Fim e della Cisl.
Il ragazzino che a 13 anni entrò in fabbrica ci racconta delle lotte sociali alle Ferriere di Torino e il suo incontro con il sindacato, insieme all’associazionismo cattolico, in una Torino che fu scuola davvero importante nei primi anni della Lcgil e della Cisl.
Tridente incontra la grande fabbrica, la lotta sostenuta da Pastore e Donat Cattin contro la deriva aziendalista di parte della Fim torinese e si fa promotore, insieme ad un manipolo di strutture provinciali, delle prime lotte e conquiste unitarie fra i metalmeccanici.
Il racconto ci fa immergere nelle esaltanti conquiste sindacali così come nelle illusioni e nelle sconfitte, ci racconta il rapporto tra il movimento studentesco e quello sindacale, l’autunno caldo, la tensione unitaria, il fallimento, gli anni del riflusso e del ripiegamento. Ma è una la chiave che rende così originale la vicenda umana, sindacale e politica di Alberto Tridente.
Ce lo spiega il titolo che apre la seconda parte del volume: Mia patria è il mondo intero. È questo ideale internazionalista, mai velleitario, ma fortemente anticipatore e ancorato alla migliore tradizione contrattualista (si pensi alle azioni per la rappresentanza nelle aziende multinazionali o, appunto, all’impegno per la riconversione delle nostre industrie belliche) che Alberto Tridente saprà poi trasportare pienamente nella sua esperienza di parlamenta- re europeo eletto nelle file di Democrazia proletaria (certo non unico di una significativa pattuglia di cislini e fimmini animatori dell’«altra sinistra», ma mai comunisti) e nelle molteplici azioni ed iniziative che promosse fino all’ultimo, quando il risorgere beffardo e inesorabile di un male che sperava di aver sconfitto ha piegato la sua «lotta» terrena.
Sono tante le immagini e le narrazioni di questo testo che si nutre anche dell’instancabile impegno di Tridente per la salvaguardia dei diritti umani e del lavoro nei paesi privi di democrazia o coinvolti in difficili fasi di transizione, siano essi il Cile sotto Pinochet o l’Ungheria durante l’agonia del socialismo reale, il Guatemala di Rigoberta Menchù o il Salvador di monsignor Romero e di Marinella Garcia Villas, il Brasile di Ignacio Lula e di Chico Mendes.
C’è un episodio che mi ha colpito molto e che voglio riportare.
È l’ottobre del 1988, ultimi scampoli del regime di Pinochet. A Santiago del Cile si sta svolgendo il referendum che sancirà il lento abbandono del potere da parte del dittatore che è però tuttora in sella con tutto il suo apparato militare repressivo. Alberto è lì, alla conferenza internazionale per la democrazia in Cile. No, non è sul palco, non sta svolgendo una relazione, intessendo contatti. Sta bloccando gli ascensori. Sì perché, sia pure per qualche istante, Luis Gastavino, esponente della sinistra cilena ricercato e clandestino, porterà il suo fulmineo saluto alla conferenza. Alberto, parlamentare europeo, è tra le persone che riescono a fare da barriera con i propri corpi e ad impedire l’arresto dell’attivista che, toltosi il travestimento, pronuncerà brevissime parole di augurio e di speranza per il ritorno della democrazia per poi svanire nel nulla, fino all’uscita dalla clandestinità.
Mi piace descriverlo, ancora oggi, così Alberto Tridente, a oltre dieci anni dalla sua scomparsa, una grande personalità, un uomo che sapeva esprimersi non solo nell’agone pubblico, ma anche nel silenzio delle scalate alpine, che sapeva bene quando fosse il momento giusto di prendere la parola e gestire un’assemblea, uno sciopero, una lotta rivendicativa, una contestazione come quella che mi vide mio malgrado protagonista, ma riusciva, senza difficoltà, anche ad essere frammento di un arcipelago collettivo e solidale di impegno, militanza e gratuità.
Un arcipelago che può anche commettere errori pubblici e privati, ma che si nutre, come direbbe don Eduardo Galeano, dei passi concreti e quotidiani dell’utopia.
Terminava così Alberto Tridente la sua autobiografia, nonostante il «male» si fosse, con ogni probabilità, già riaffacciato:
Il mio inesauribile ottimismo mi sorregge sempre, affidato non solo al mio carattere naturale, ma basato su quanto di nobile esiste nell’essere umano, che al meglio si esprime nella solidarietà e nel dono. Traggo fiducia ed energia dai molti e generosi esempi di dedizione di quanti si applicano ogni giorno all’attività nel volontariato, nelle Ong, nelle cooperative sociali, negli ospedali. Traggo fiducia dagli onesti operatori dei servizi pubblici dei vari campi di attività e da quant’altro viene offerto alla cittadinanza da credenti e laici, uomini e donne dagli alti profili civili, e anche, nonostante tutto, dai molti altri onestamente impegnati ogni giorno nella politica e da semplici cittadini che, nel privato e nel pubblico, svolgono con rigore il proprio lavoro e dovere di cittadini. Dall’impegno dei singoli e dei gruppi, che non badano al proprio tornaconto personale o alla sola carriera, traggo questi stimolanti esempi.
Le carriere sono possibili e lecite, opportunità che non vanno ricercate come fini a se stesse, come del resto l’ascesa sociale spesso offerta dalle circostanze, senza per ciò dover vendere la propria anima a chicchessia. Basta fare il proprio dovere ed essere disponibili a servire ideali.
Uno sguardo cislino sui temi del mondo e sul sindacato mondiale che si nutriva anche dell’esperienza del quotidiano, del «prossimo», che ha saputo essere premonitore e che oggi, non può che chiudere, con nostalgia e amore, questo testo.
Uno sguardo vivo, quello di Alberto Tridente, che non posso, in conclusione, non accompagnare con una poesia.
Mi rebeldia es vivir – La mia ribellione è vivere fu scritta, in cella, da Arinda Ojeda Aravena, imprigionata in Cile dal regime di Pinochet e adottata, negli anni Ottanta, da Cisl, Cgil e Uil di Vicenza.
Un’«adozione» durata fino alla liberazione, avvenuta anche grazie all’impegno profondo per i diritti umani, politici e sindacali che contraddistingueva l’attività militante di Alberto Tridente.
Una poesia che travalica, steccati, generazioni, sentimenti e che, nell’abbracciare la vita attraverso gli occhi liberi di una donna, nonostante la prigionia, abbraccia la nostra patria: «il mondo intero».
Una poesia che ci fa pensare che, nei suoi sogni ribelli d’amore, un frammento di Alberto è ancora qui con noi, in uno sguardo ancorato alla terra, alle terre, ma rivolto al mondo intero.

Mi rebeldia es vivir – La mia ribellione è vivere
di Arinda Ojeda Aravena
Scrivere è avere uno spazio di libertà.
Lo vado conquistando a mano a mano che le parole scivolano attraverso la matita.
Scrivendo posso vivere illimitamente ciò che mi è limitato.
Posso trasformare in qualcosa di concreto i sogni che mi sono negati. Le mie righe, i miei versi, sono vissuti, diretti e semplici.
Sono sognatori, magici e vagabondi.
Sono il riflesso della mia realtà e della mia fantasia.
Scrivere è anche una forma di ribellione,
perché non accetto che la libertà
possa essermi strappata in modo totale. Sono libere le mie idee e i miei sentimenti.
Sono libera nel mio sentire e nel mio pensare.
E un modo di esercitare questa libertà, è scrivere. Le mie parole forse non gridano ribellione, esse contengono in se stesse, la mia ribellione. Vivere è sinonimo di amare e lottare.
In qualsiasi luogo, in qualsiasi condizione,
vivrò se sono capace di amare, se sono capace di lottare.
Per questo scrivo, perché la mia ribellione è vivere.
Escribir es tener un espacio de libertad. Lo voy ganando asi como las palabras van resbalando a través del làpiz.
Escribiendo puedo vivir ilimitadamente lo que està limitado
Puedo transformar en algo concreto los suenos que me son negados. Mis lineas, mis versos, son vivenciales, directos y sencillos.
Son sonadores, màgicos y vagabundos. Son el reflejo de mi realidad y mi fantasia. Escribir es también una forma de rebelión, porque no acepto que la libertad
pueda serme arrebatada en forma total. Son libres mis ideas y mis sentimientos. Soy libre en mis sentires y mis pensares
Y una forma de ejercer esa libertad, es escribir. Mis palabras quizàs no gritan rebeldfa,
ellas contienen en si mismas, mi rebeldia. Vivir es sinònimo de amar y luchar.
En cualquier lugar, en cualquier condición,
viviré si soy capaz de amar, si soy capaz de luchar.
Por eso escribo, porque mi rebeldia es vivir.
Francesco Lauria

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