giovedì 28 agosto 2025

Ho sognato una strada, scardinato confini: “è così che entra la luce…”

Suonate le campane che possono ancora suonare

Dimenticate la vostra offerta perfetta

c’è una crepa in ogni cosa

È così che entra la luce.

Leonard Cohen, Anthem, 1992

 


Al delinearsi di una giornata che mi aspetto significativa per la mia vita professionale, ho ripreso un vecchio testo sul tema della formazione.

Sulla formazione sindacale e sulla “professionalità” dei sindacalisti non si può riflettere ed agire, secondo me, se non delineando una strategia all’interno di una più ampia politica di rinnovamento e «inveramento» dell’agire sindacale.

Non è un caso che in un ampio e ancora interessantissimo numero monografico della rivista Cisl «Prospettiva sindacale» risalente al 1987, dedicato a «sindacato, organizzazione, rappresentatività» nella società neoindustriale, sia pubblicato un intervento di Pippo Morelli, allora direttore del Centro Studi Cisl di Firenze, come scritto organico sull’azione formativa non solo nella Cisl, ma più in generale nel sindacato italiano.

Morelli volle intitolare il suo intervento: “Una formazione per il cambiamento”.

Rileggere tutto quel numero di «Prospettiva sindacale», a partire dal suo editoriale, fornisce, ancora oggi, spunti importanti: il fascicolo analizza, infatti, il sostanziale fallimento della più grande riforma organizzativa mai tentata dal sindacato confederale italiano, quella delineata dalla Federazione Cgil Cisl Uil a Montesilvano, nel 1979.

In un momento di forza del sindacato, la riforma organizzativa ipotizzava un allargamento della partecipazione democratica associato a un cambiamento istituzionale (da cui la scelta dei comprensori più piccoli delle province come dimensione organizzativa) e prevedeva l’efficace funziona mento di organi sub-nazionali di governo del mercato del lavoro (onde il rafforzamento della struttura regionale) e, infine, progettava una razionalizzazione del modello contrattuale (e, quindi, presupponeva rilevanti accorpamenti categoriali).

Per la rivista, la riforma di Montesilvano appariva un atto politico coraggioso, ma carente su un profilo essenziale: quello della sottovalutazione dei metodi di governo di un’organizzazione complessa come il sindacato e con un nodo più problematico di altri: la mancata valorizzazione delle risorse umane.

 Un tema che partiva dalla crisi del proselitismo (la sindacalizzazione in Italia era in calo da esattamente dieci anni prima) in un sistema in cui le adesioni contavano più per il potere che fornivano ai gruppi dirigenti (per la gestione delle risorse organizzative) che come strumento di legittimazione verso le controparti.

Nell’articolo di Morelli, come in altri contributi della rivista, era forte la convinzione che, nel progettare un qualsiasi modello organizzativo, occorresse dare priorità all’idea di un sindacato che si fondasse sulla centralità delle risorse umane esistenti al suo interno.

Una sfida in salita nella quale si rivelavano possibili e auspicabili tre condizioni: che ogni attività nel sindacato avesse pari dignità; che chiunque vi operasse avesse pari opportunità di crescita professionale; che la legittimazione politica prevalesse su quella burocratica.

Con alcuni problemi evidenti, si leggeva nell’editoriale scritto da Guido Romagnoli:

“Oggi, nel sindacato, occuparsi di informazione, ricerca, di rapporti con settori marginali del mercato del lavoro, significa aver possibilità di carriera solo se ci si dimostra omologhi al gruppo dirigente, o se ad esso si riesce a contrapporre una forte opposizione (il che è assai improbabile).

Il panorama che ne consegue è quello di un sindacato poco aperto all’ascolto delle domande dei rappresentati, se non quando questi minacciano di andarsene.

Dove i sindacalisti devono dialogare in primo luogo fra di loro, perché questa è la condizione della loro permanenza e la strada centrale della loro carriera nell’organizzazione.

Così la sindacalizzazione non è più un interesse centrale.

Così si scoprono ogni giorno nuove vie per l’acquisizione di risorse, esterne al consenso […].”

Tuttora significative alcune soluzioni proposte:

stare con la gente, non per rispecchiarne gli interessi, ma per promuovere il cambiamento, significa sempre di più raccogliere ed elaborare informa zioni, simulare scenari, inventare risorse, collaborare all’efficienza delle politiche pubbliche. […] L’esistenza di più carriere, fra loro intercambiabili, è la precondizione per l’incremento delle attività rivolte all’organizza zione del consenso: e di un consenso non particolaristico.

In questo contesto si inseriscono le proposte di Morelli sul tema della «professionalità» dei sindacalisti: un processo che richiedeva di inserire i percorsi formativi dei quadri in un contesto di crescita permanente e pianificata.

Se, si chiedeva ancora nell’editoriale Guido Romagnoli: le aziende in sviluppo […] arrivano ad avere fino al 10 per cento del proprio personale costantemente inserito in processi formativi: e in particolare nel lo studio e nell’aggiornamento sulle tecniche e sulle metodologie gestionali e organizzative. Per quali motivi succede oggi che gli uomini del sindacato facciano tanta fatica a «staccarsi» dal lavoro quotidiano e trovare spa zi istituzionali per la formazione, se non perché la loro carriera è legata al presenzialismo? […]

Curare le attitudini, la formazione e l’accumulazione «utile» delle esperienze (e perché no?) le motivazioni dei dirigenti: sono operazioni rese possibili da una semplice decisione di sganciamento della carriera dalle funzioni, che potrebbero rinnovare l’attenzione ai lavoratori e alla conoscenza non solo quotidiana dei cambiamenti strutturali e soggettivi cui essi sono soggetti […].

D’altronde, affermava Morelli, nel suo intervento sulla rivista:

Occorre allora fondare una nuova strategia su una «cultura della trasformazione» che non sia intesa come un prodotto prefabbricato da un gruppo di intellettuali, bensì come capacità di tutta l’organizzazione di conoscere, analizzare, comprendere e controllare i mutamenti in atto e di prospettiva, sia nelle fabbriche come nei servizi, nei pubblici uffici come nei territori, nelle strutture istituzionali come nelle organizzazioni sociali.

I problemi che deve affrontare oggi il sindacato richiedono una gamma ben più ampia di capacità e di strumenti di conoscenza, di proposta, di rapporti o confronti, di organizzazione.

Occorre quindi, ieri come oggi, nello stare nel sindacato, saper: “travalicare i confini”.

Ha scritto alcuni annifa un altro reggiano come Pippo Morelli, nel realizzare, con me, una sorta di spettacolo teatrale tra Don Lorenzo Milani e la cooperazione di comunità:

“La sovversione non guarda al passato, ne riprende semplicemente i linguaggi e il filo.

Tutti i cooperatori comunitari guardano a ciò che da lì deve venire.

Non cercano rifugi e permanenze, vi cercano nuovamente partenze e sconfinamenti. Non lo fanno da prigionieri, ma da esploratori.

Non fronteggiando il futuro, ma volendolo proprio, con tutto ciò che contiene.

Le montagne e i paesi li conoscono per ciò che erano e sono tanto grati ai loro proprietari da esserne autorizzati a vestirli di nuovo e scardinarne i confini.

Occorre prima esserne abitanti, poi occorre accettare di esserne i contrabbandieri, per ciò che vi si porta dentro e ciò che si porta fuori per la loro sopravvivenza, senza le dogane e i bolli che pretende il Mondo di sopra.

Montagne e luoghi.

Abitanti che condividono e contrabbandieri che portano dentro e fuori merci e persone.

Se non siamo del tutto l’uno e l’altro c’è poco da discuterne e da fare”.

(Giovanni Teneggi, Scardinare i confini, Testo per “I care - We Do!”, 2019)

 

Concludendo, mentre, nei prossimi giorni, mi appresto a percorre una parte del cammino di Santiago insieme a mio figlio Jacopo, penso a quanto mi siano rimaste, indelebili, scolpite nel cuore, le parole di Chiara Morelli, figlia di Pippo, durante i funerali del padre, nel giugno 2013, a Reggio Emilia.  

Come dice don Giorgio Basadonna, in un libro che per me è come una seconda Bibbia, sottolineava commossa Chiara, «non si sta fermi, siamo fatti per camminare, per crescere, per divenire».

C’è una lunga, lunga traccia che si perde nel cielo, che scavalca il tempo e approda all’eterno. Ma intanto si cammina.

Prendo in prestito da un bellissimo libro di Paolo Giuntella, scout come Morelli, le ultime strofe di una canzone francese: “L’appel de la route”, Il richiamo della strada:

Se il tuo cuore qualche volta

è catturato da grandi sogni,

 se tu cerchi le forti virtù che ci sollevano,

ben lontano dai sentieri battuti

 segui la strada senza tregua.

 Ohè, ragazzo, ragazzo,

 tu che cerchi, tu che dubiti,

 presta l’orecchio alla mia canzone:

 ascolta il richiamo della strada.

 Tu che conoscesti i molti segreti di questa strada,

 i calvari drizzati al cielo, sotto la grande volta,

 tu sarai per l’amore di Dio

 ogni giorno in ascolto.

 Quando la notte avrà diffuso il silenzio nel bosco,

 tu ti addormenterai senza paura, pieno di speranza,

 e la voce del Signore dentro di te

 sarà la tua ricompensa.

 

Camminiamo, seguendo un solco profondo, ma anche inventando nuove strade.

Senza risparmiarci, magari in sentieri poco battuti, ma senza rinunciare a cantare.

Ascoltiamo e, insieme, trasmettiamo, comunichiamo, il silenzio del bosco e, quasi allo stesso tempo, discutiamo la speranza nella città, e, perché no, nella fabbrica o nel sindacato.

Ogni giorno in ascolto, ogni giorno senza rinunciare a questa o ad altre canzoni, magari in lingue diverse, anche di fronte alle delusioni, agli avvitamenti della vita.

Cantiamo queste strofe, non solo con i nostri figli, ma anche con i tantissimi giovani che, con l’esempio e l’attenzione all’altro, possiamo coinvolgere nel sindacato e nell’impegno sociale.

Rispettando il loro solco, senza voler predeterminare le loro strade, senza aspettarsi alcunché in cambio, almeno a livello personale.

Si continuerà, infatti, a tornare e a ripercorrere insieme frammenti di cammino condiviso.

Proviamo, concludo davvero, a essere coerenti con i grandi e impegnativi lasciti: con quella luce che, con ostinata sobrietà, ci è stata indirettamente affidata.

Francesco Lauria

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