venerdì 5 dicembre 2025

"HO BISOGNO DI CREDERE". L'ANCORA DI LUCE NELLA FERITA DI MARIO E BENEDETTA, TRA: "TERRORE E DIRITTI".

“Mentre portavo questi esempi mi sono veramente reso conto che non c’è una netta distinzione fra guerre giustificate e guerre ingiustificate; sono tutte spinte da interessi economici, politici e militari sommersi, sono tutte contro la povera gente, che vede sconvolta la propria vita”.

Era il 29 maggio 1993 e frequentavo la terza media, sezione C, scuola Don Lorenzo Cavalli (ancora non sapevo bene chi fosse stato) a Parma.

In una delle mie solite “aurore-albe” produttive ho ritrovato per puro caso questo mio vecchio tema, infilato non so perché, nella camera dei miei genitori, in una edizione consunta e vissutissima del celebre libro di Andrè Gide: “I sotterranei del Vaticano”.

Il foglio mi è letteralmente caduto addosso mentre rileggevo, in quarta di copertina, la sintesi del volume scandalo dello scrittore francese.

In quella lontana primavera avanzata del 1993, non avendo ancora compiuto quattordici anni, avevo scelto, in classe, la traccia numero due che recitava così: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa (come dovrebbero fare tutte le nazioni). Secondo te quali sono le guerre giustificate e quali quelle ingiustificate”.

Avevo iniziato il tema dall’Italia, dall’aprile-maggio 1945, dal quasi un milione di morti fra militari e civili nel nostro Paese.

In progressione avevo ricordato il giugno 1946, con la scelta della Repubblica e il voto delle donne, il 1 gennaio 1948, l’entrata in vigore proprio di quella Costituzione in cui è scritto, a carattere indelebili, il ripudio (una parola scelta davvero opportunamente dai costituenti) della guerra anche nel contesto delle controversie internazionali.

Scrivevo di quanto la nostra popolazione “volesse la pace, ricostruire, ricominciare a vivere senza bombe (giustificate o ingiustificate che fossero).”

Per esempi più recenti ero passato a raccontare, devo dire davvero bene, del Libano (con Beirut devastata ex Zurigo del Medio Oriente) e della Cambogia dei Kmer rossi e di quanto era avvenuto dopo.

Gran parte del mio tema veniva dedicata a quella che sarebbe diventata la mia più grande, intima passione geopolitica: la Bosnia Erzegovina.

Eravamo nel pieno del conflitto della ex Jugoslavia ed io, malato di geografia, negli anni precedenti avevo attaccato con le puntine nella mia cameretta, dalla quale ora scrivo al computer, proprio una grande cartina della terra degli "slavi del Sud".

Non sapevo allora che avrei scelto, rinunciando ad altre destinazioni e ad altri concorsi vinti (ad esempio a Torino) per frequentare il corso di laura in Scienze Internazionali dell’Università di Trieste, sede di Gorizia.

Un'università ospitata, in Via Alviano, in un seminario, allora non ancora ristrutturato, risalente ai primi del Novecento, alla fine dell'Impero asburgico, proprio sopra la "Casa Rossa", il confine internazionale in cui vennero fatti saltare, in un carro armato, disintegrati dalla milizia slovena, quattro giovani militari dell'esercito jugoslavo".

Nel 1998 vicino alla Pizzeria del valico internazionale (l'unico che, senza il lasciapassare dei residenti, la prepusnica, noi studenti potevamo attraversare), si vedevano ancora i fori dei colpi di proiettile, in territorio italiano.

Ma già nel 1993 avevo le idee chiare: confutavo con attenzione le fake news più diffuse del momento, riprendevo le statistiche ufficiali sui matrimoni misti a Sarajevo nel 1991, ricordavo come di fronte a quel conflitto apparentemente assurdo, certamente ipercomplesso, con portati storici, culturali e religiosi innegabili, innanzitutto non ci restasse che: “piangere di vergogna”.

Dalla Bosnia, non senza un accenno al genocidio armeno del 1915 che avevo scoperto leggendo il capolavoro, per molti anni perduto, di Franz Werfel: “I quaranta giorni del Mussa Dagh”, passavo ad analizzare la vicenda del Nagorno Karabach e il conflitto altalenante tra Azerbaijan ed Armenia, con un excursus sulla guerra per “procura” con la Russia schierata per ragioni economiche e strategiche con Erevan e la Turchia che per ragioni sia religiose che, soprattutto, di influenza strategica ed energetica era schierata con Baku.

Non sapevo che, tra il 2004 e il 2005, avrei frequentato, dopo la laurea a Trieste, a Parma, presso il Collegio Europeo della mia città, un master internazionale con partecipanti italiani, provenienti dai Balcani e dal Caucaso.

Capii il conflitto con il fatto che la mia compagna armena e quella azera, ragazze tranquillissime e socievoli, per un anno non si rivolsero mai non solo una parola, ma nemmeno uno sguardo.

Nemmeno per sbaglio. Nemmeno di nascosto.

Scoprii, tra il 1998 e il 2004 la Bosnia, sia nella parte a maggioranza serba che nella federazione croato-musulmana partendo da Trieste e da Gorizia, ma anche da Lubiana e da Zagabria. E partendo, con dolore, dalla lotta a quella vergogna e a quelle giustificate e colpevoli lacrime cui facevo cenno nel mio tema del 1993, dedicai la tesi di laurea alle Agenzie (già Ambasciate) della Democrazia Locale di Priejdor e Zavidovici, promosse, tra le altre, dal Consiglio d’Europa. 

Luoghi della diplomazia popolare, di quell’Europa minore che citavo nel titolo della tesi: l’Europa delle comunità e delle istituzioni locali, dei gemellaggi, della società civile, qualche volta anche dei sindacati, delle associazioni. Certo non l’Europa intergovernativa e antifederalista degli Stati Nazione, colpevoli, complici, co-carnefici.

Vissi un po’ la Bosnia anche per alcuni anni dopo la laura, penso all’esperienza bellissima dei Comitati Acqua Bene Comune, ai fiumi che possono unire e non dividere, al nostro Isonzo-Soca, ma anche a quella Neretva, protagonista della riapertura del ponte vecchio di Mostar, lo Stari Most, vissuta da con un’emozione incredibile, dopo un avventuroso, condiviso, gioioso, faticoso viaggio in pulmann proprio da Gorizia e da Trieste.

Una Trieste che, partendo proprio della nostra piccola “Gotham City” isontina, alla fine degli anni Novanta del Novecento, ci sembrava, sinceramente, una New York con la montagna, il mare ed il confine, con le chiese ortodosse e la sinagoga, con una poesia, certo intrisa di venature di malinconia, ma anche di cielo, orizzonte, frammenti, oceani di infinito.

Un grande scrittore e giornalista triestino, Claudio Magris, ha dato alle stampe un corposo volume che raccoglie molti suoi articoli dal 2017 ad oggi, intitolato: "Dura un attimo il giorno".

Solo alcuni titoli valgono, da soli, il libro: “L’adolescenza lieve di Trieste”; “Lo specchio sa più cose di noi”; “Futuro”; “La speranza che ci rende noi”; “Alla poesia serve la chimica”; “Indifesi perché smemorati”; “Un amore oltre la storia”; “Le tre guerre mondiali”; “Il clown che urla nella chiesa”; “Gorizia cuore d’Europa” (così mi perdonano Gotam City NdR); Riparare la memoria; “Il coraggio della speranza”; “L’ombra senza qualità”; “Il necessario incanto”; “Via Fani, la memoria negata”; “Scommessa con la morte”; “Bianco per la neve, rosso per la vita”.

A Trieste, dopo aver bucato con grande sofferenza, un paio di viaggi già previsti, dovrei tornare tra una decina di giorni, sulle tracce triestine di un grande aclista e sindacalista europeo: Emilio Gabaglio.

Mi preparo al viaggio, grato, immensamente grato a Mario Calabresi, Benedetta Tobagi, Sara Poma, Marco Damilano.

Nel loro bellissimo ed emozionante spettacolo: “Anni Settanta. Terrore e diritti” che non posso dire solo di aver visto ieri sera, ma di aver proprio vissuto, come fossi lì su palco con loro, con le loro fotografie, le loro canzoni, le loro storie, e loro famiglie, in prima persona, con il cuore aperto, trafitto e piangente, certo, ma anche ispirato e sconvolto di gratitudine e, soprattutto, di un passato che, nel nostro complicato presente, si fa generatore e tessitore di futuro.

Nell’incanto della riparazione della memoria, come nella commovente storia, non a lieto fine, di Antonia Custra, raccontata con dolcezza da Mario, persona che, esattamente come Benedetta, ha saputo, chissà con quale insondabile percorso ricco di mistero e di fede, ha saputo trasformare la propria ferita di morte in feritoia di luce, per se stesso e per gli altri, tutti gli altri, ieri sera, al Regio di Parma, è capitata, quasi alla fine, quasi inaspettatamente anche Trieste.

E' bellissimo sbirciare, Mario e Benedetta, insieme a Sara, quando si scambiano uno sguardo, un sorriso profondo, si sollevano insieme con una lieve pacca sulla spalla, con un silenzio complice che è dialogo, arma, Mistero di Pace, orizzonte di Amore.

Nel loro spettacolo, In quella “linea di sconfine” che la accomuna totalmente a Gorizia, la Trieste (come la Gorizia) di Franco Basaglia è una meraviglia e un monito per la memoria, proprio come tutti i Balcani, non solo la Bosnia.

Proprio come tutto il Causaso, non solo l’Armenia e l’Azerbaijan.

Il racconto di Marco Cavallo, quattro metri di altezza di scultura-utopia concreta, una pancia piena di sogni di matti, uno scivolo di ghisa per scendere dalle colline al mare, dal confine della devianza e della patologia a quella dell’incontro con i “normali”, del dialogo, come mi ha scritto la mia amica parmigiana, sindacalista di Lesignano Bagni, come “nostra più potente arma di pace”.

Io che ho camminato sulle orme di Basaglia che, nella mia ex compagna di Università Sara, ho incontrato il nesso umano, generativo dell’incontro tra Trieste e Pistoia, non sapevo nulla di Marco Cavallo, di quella idea geniale di Franco Basaglia, di quella scultura d’amore e di opportuna follia che ha scaraventato via secoli, millenni di stigmi, di ghetti, di ripudi, di atrocità, di “campi”.

In un abbraccio che non so quanto Mario, Benedetta e Sara conoscano, ha incontrato i “matti da slegare”, in tutto il mondo, Africa compresa, di Mario Tommasini, gli occhi d’amore di una sinistra avulsa dal potere per il potere, dai bunker, dal conformismo, Colorno, il paese di mia madre.

Quanto ho amato gli occhi di Mario, proprio in quel 1998 in cui stavo per trasferirmi da Parma e Gorizia, in cui abbiamo dimostrato che si può fare politica per amore e che “politica e potere” non sono, non saranno mai la stessa cosa.

Mai.

Ce lo raccontano i sogni politici ed intimi dei matti raccolti da Basaglia nella pancia di Marco Cavallo.

Planati, grazie ai tubi ricavati da una panchina di ghisa nella riparazione della memoria e nella sorpresa dell’incanto, sulla città della MittleEuropa, non solo del confine, dei confini.

Perché tra la certezza e il dubbio, tra il sospetto e la Fede, tra la presunta normalità e la certificata devianza, c’è sempre, anche oltre la scontata rima, la Speranza.

Quel sogno che ci hanno insegnato, meglio proposto, Aristotele, Pierre Carniti, Franco Basaglia, Mario Tommasini, Antonia Custra, Mariasilvia Spolato (insegnante, la prima donna, lesbica, in Italia, nel 1972, a fare coming out pubblicamente, fatto che pagò con il posto di lavoro e terminando la sua vita come senza dimora), lo dobbiamo fare da svegli.

Tra terrore (quello delle stragi di Stato e delle bande armate, di destra e di sinistra) e diritti, non possiamo che sposare, ricordare, custodire, rilanciare, questi ultimi, in un’ancora di luce e di memoria riparata e riparante.

"Alzarci all’alba" come ci propone Mario nel suo ultimo stupefacente, straordinario, opportuno, libro e, incontrando necessariamente, come ci ha ricordato in un altro indispensabile volume, Benedetta Tobagi: “Una stella incoronata di buio”. Senza mai rinunciare, con Marco Damilano, a continuare a ricercare, insieme: “Un atomo di verità”.

Mi ha scritto dal centro dell'Europa, questa notte, una donna, dono opportuno e benedetto nella mia Vita, in un kairòs di pace e di perdono: "Si riparte sempre avendo nel cuore il desiderio e la certezza di infinito".

Si riparte: "a un passo da domani" dalla Fede, dal bisogno, dal desiderio di: "Credere".

Si riparte, anche dalla musica, dalle parole, dalla Fede, dai silenzi di Fabrizio Moro, da un'"energia imbarazzata che costruisce", 

https://www.youtube.com/watch?v=uedtrwR93dM :

"Ascolta il mio respiro. Io aspetto.

Ho bisogno di Credere, ho bisogno di Te."

Francesco Lauria

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