Suonate le campane che possono ancora suonare
Dimenticate la vostra offerta perfetta
c’è una crepa in ogni cosa
È così che entra la luce.
Leonard Cohen, Anthem, 1992
Al delinearsi di una giornata che mi
aspetto significativa per la mia vita professionale, ho ripreso un vecchio
testo sul tema della formazione.
Sulla formazione sindacale e sulla “professionalità”
dei sindacalisti non si può riflettere ed agire, secondo me, se non delineando una
strategia all’interno di una più ampia politica di rinnovamento e «inveramento»
dell’agire sindacale.
Non è un caso che in un ampio e ancora
interessantissimo numero monografico della rivista Cisl «Prospettiva sindacale»
risalente al 1987, dedicato a «sindacato, organizzazione, rappresentatività»
nella società neoindustriale, sia pubblicato un intervento di Pippo Morelli, allora
direttore del Centro Studi Cisl di Firenze, come scritto organico sull’azione
formativa non solo nella Cisl, ma più in generale nel sindacato italiano.
Morelli volle intitolare il suo
intervento: “Una formazione per il cambiamento”.
Rileggere tutto quel numero di
«Prospettiva sindacale», a partire dal suo editoriale, fornisce, ancora oggi,
spunti importanti: il fascicolo analizza, infatti, il sostanziale fallimento
della più grande riforma organizzativa mai tentata dal sindacato confederale
italiano, quella delineata dalla Federazione Cgil Cisl Uil a Montesilvano, nel
1979.
In un momento di forza del sindacato,
la riforma organizzativa ipotizzava un allargamento della partecipazione
democratica associato a un cambiamento istituzionale (da cui la scelta dei
comprensori più piccoli delle province come dimensione organizzativa) e
prevedeva l’efficace funziona mento di organi sub-nazionali di governo del
mercato del lavoro (onde il rafforzamento della struttura regionale) e, infine,
progettava una razionalizzazione del modello contrattuale (e, quindi, presupponeva
rilevanti accorpamenti categoriali).
Per la rivista, la riforma di
Montesilvano appariva un atto politico coraggioso, ma carente su un profilo
essenziale: quello della sottovalutazione dei metodi di governo di
un’organizzazione complessa come il sindacato e con un nodo più problematico di
altri: la mancata valorizzazione delle risorse umane.
Un tema che partiva dalla crisi del
proselitismo (la sindacalizzazione in Italia era in calo da esattamente dieci
anni prima) in un sistema in cui le adesioni contavano più per il potere che
fornivano ai gruppi dirigenti (per la gestione delle risorse organizzative) che
come strumento di legittimazione verso le controparti.
Nell’articolo di Morelli, come in
altri contributi della rivista, era forte la convinzione che, nel progettare un
qualsiasi modello organizzativo, occorresse dare priorità all’idea di un
sindacato che si fondasse sulla centralità delle risorse umane esistenti al suo
interno.
Una sfida in salita nella quale si
rivelavano possibili e auspicabili tre condizioni: che ogni attività nel
sindacato avesse pari dignità; che chiunque vi operasse avesse pari opportunità
di crescita professionale; che la legittimazione politica prevalesse su quella
burocratica.
Con alcuni problemi evidenti, si
leggeva nell’editoriale scritto da Guido Romagnoli:
“Oggi, nel sindacato, occuparsi di
informazione, ricerca, di rapporti con settori marginali del mercato del
lavoro, significa aver possibilità di carriera solo se ci si dimostra omologhi
al gruppo dirigente, o se ad esso si riesce a contrapporre una forte opposizione
(il che è assai improbabile).
Il panorama che ne consegue è quello di un
sindacato poco aperto all’ascolto delle domande dei rappresentati, se non
quando questi minacciano di andarsene.
Dove i sindacalisti devono dialogare in primo
luogo fra di loro, perché questa è la condizione della loro permanenza e la
strada centrale della loro carriera nell’organizzazione.
Così la sindacalizzazione non è più un
interesse centrale.
Così si scoprono ogni giorno nuove vie per
l’acquisizione di risorse, esterne al consenso […].”
Tuttora significative alcune soluzioni
proposte:
stare con la gente, non per
rispecchiarne gli interessi, ma per promuovere il cambiamento, significa sempre
di più raccogliere ed elaborare informa zioni, simulare scenari, inventare
risorse, collaborare all’efficienza delle politiche pubbliche. […] L’esistenza
di più carriere, fra loro intercambiabili, è la precondizione per l’incremento
delle attività rivolte all’organizza zione del consenso: e di un consenso non
particolaristico.
In questo contesto si inseriscono le
proposte di Morelli sul tema della «professionalità» dei sindacalisti: un
processo che richiedeva di inserire i percorsi formativi dei quadri in un
contesto di crescita permanente e pianificata.
Se, si chiedeva ancora nell’editoriale
Guido Romagnoli: le aziende in sviluppo
[…] arrivano ad avere fino al 10 per cento del proprio personale costantemente
inserito in processi formativi: e in particolare nel lo studio e
nell’aggiornamento sulle tecniche e sulle metodologie gestionali e organizzative.
Per quali motivi succede oggi che gli uomini del sindacato facciano tanta
fatica a «staccarsi» dal lavoro quotidiano e trovare spa zi istituzionali per
la formazione, se non perché la loro carriera è legata al presenzialismo? […]
Curare le attitudini, la formazione e
l’accumulazione «utile» delle esperienze (e perché no?) le motivazioni dei
dirigenti: sono operazioni rese possibili da una semplice decisione di
sganciamento della carriera dalle funzioni, che potrebbero rinnovare l’attenzione
ai lavoratori e alla conoscenza non solo quotidiana dei cambiamenti strutturali
e soggettivi cui essi sono soggetti […].
D’altronde, affermava Morelli, nel suo
intervento sulla rivista:
Occorre allora fondare una nuova strategia su
una «cultura della trasformazione» che non sia intesa come un prodotto
prefabbricato da un gruppo di intellettuali, bensì come capacità di tutta
l’organizzazione di conoscere, analizzare, comprendere e controllare i
mutamenti in atto e di prospettiva, sia nelle fabbriche come nei servizi, nei
pubblici uffici come nei territori, nelle strutture istituzionali come nelle
organizzazioni sociali.
I problemi che deve affrontare oggi il
sindacato richiedono una gamma ben più ampia di capacità e di strumenti di
conoscenza, di proposta, di rapporti o confronti, di organizzazione.
Occorre quindi, ieri come oggi, nello
stare nel sindacato, saper: “travalicare
i confini”.
Ha scritto alcuni annifa un altro
reggiano come Pippo Morelli, nel realizzare, con me, una sorta di spettacolo teatrale
tra Don Lorenzo Milani e la cooperazione di comunità:
“La sovversione non guarda al passato, ne
riprende semplicemente i linguaggi e il filo.
Tutti i cooperatori comunitari guardano a ciò
che da lì deve venire.
Non cercano rifugi e permanenze, vi cercano
nuovamente partenze e sconfinamenti. Non lo fanno da prigionieri, ma da
esploratori.
Non fronteggiando il futuro, ma volendolo
proprio, con tutto ciò che contiene.
Le montagne e i paesi li conoscono per ciò che
erano e sono tanto grati ai loro proprietari da esserne autorizzati a vestirli
di nuovo e scardinarne i confini.
Occorre prima esserne abitanti, poi occorre
accettare di esserne i contrabbandieri, per ciò che vi si porta dentro e ciò
che si porta fuori per la loro sopravvivenza, senza le dogane e i bolli che
pretende il Mondo di sopra.
Montagne e luoghi.
Abitanti che condividono e contrabbandieri che
portano dentro e fuori merci e persone.
Se non siamo del tutto l’uno e l’altro c’è
poco da discuterne e da fare”.
(Giovanni Teneggi, Scardinare i
confini, Testo per “I care - We Do!”, 2019)
Concludendo, mentre, nei prossimi
giorni, mi appresto a percorre una parte del cammino di Santiago insieme a mio figlio
Jacopo, penso a quanto mi siano rimaste, indelebili, scolpite nel cuore, le
parole di Chiara Morelli, figlia di Pippo, durante i funerali del padre, nel
giugno 2013, a Reggio Emilia.
“Come
dice don Giorgio Basadonna, in un libro che per me è come una seconda Bibbia,
sottolineava commossa Chiara, «non si sta
fermi, siamo fatti per camminare, per crescere, per divenire».
C’è una lunga, lunga traccia che si
perde nel cielo, che scavalca il tempo e approda all’eterno. Ma intanto si
cammina.
Prendo in prestito da un bellissimo
libro di Paolo Giuntella, scout come Morelli, le ultime strofe di una canzone
francese: “L’appel de la route”, Il
richiamo della strada:
Se il tuo cuore qualche volta
è catturato da grandi sogni,
se tu
cerchi le forti virtù che ci sollevano,
ben lontano dai sentieri battuti
segui
la strada senza tregua.
Ohè,
ragazzo, ragazzo,
tu che
cerchi, tu che dubiti,
presta
l’orecchio alla mia canzone:
ascolta
il richiamo della strada.
Tu che
conoscesti i molti segreti di questa strada,
i
calvari drizzati al cielo, sotto la grande volta,
tu
sarai per l’amore di Dio
ogni
giorno in ascolto.
Quando
la notte avrà diffuso il silenzio nel bosco,
tu ti
addormenterai senza paura, pieno di speranza,
e la
voce del Signore dentro di te
sarà la
tua ricompensa.
Camminiamo, seguendo un solco
profondo, ma anche inventando nuove strade.
Senza risparmiarci, magari in sentieri
poco battuti, ma senza rinunciare a cantare.
Ascoltiamo e, insieme, trasmettiamo,
comunichiamo, il silenzio del bosco e, quasi allo stesso tempo, discutiamo la
speranza nella città, e, perché no, nella fabbrica o nel sindacato.
Ogni giorno in ascolto, ogni giorno
senza rinunciare a questa o ad altre canzoni, magari in lingue diverse, anche
di fronte alle delusioni, agli avvitamenti della vita.
Cantiamo queste strofe, non solo con i
nostri figli, ma anche con i tantissimi giovani che, con l’esempio e l’attenzione
all’altro, possiamo coinvolgere nel sindacato e nell’impegno sociale.
Rispettando il loro solco, senza voler
predeterminare le loro strade, senza aspettarsi alcunché in cambio, almeno a
livello personale.
Si continuerà, infatti, a tornare e a
ripercorrere insieme frammenti di cammino condiviso.
Proviamo, concludo davvero, a essere
coerenti con i grandi e impegnativi lasciti: con quella luce che, con ostinata
sobrietà, ci è stata indirettamente affidata.
Francesco Lauria