giovedì 28 agosto 2025

Ho sognato una strada, scardinato confini: “è così che entra la luce…”

Suonate le campane che possono ancora suonare

Dimenticate la vostra offerta perfetta

c’è una crepa in ogni cosa

È così che entra la luce.

Leonard Cohen, Anthem, 1992

 


Al delinearsi di una giornata che mi aspetto significativa per la mia vita professionale, ho ripreso un vecchio testo sul tema della formazione.

Sulla formazione sindacale e sulla “professionalità” dei sindacalisti non si può riflettere ed agire, secondo me, se non delineando una strategia all’interno di una più ampia politica di rinnovamento e «inveramento» dell’agire sindacale.

Non è un caso che in un ampio e ancora interessantissimo numero monografico della rivista Cisl «Prospettiva sindacale» risalente al 1987, dedicato a «sindacato, organizzazione, rappresentatività» nella società neoindustriale, sia pubblicato un intervento di Pippo Morelli, allora direttore del Centro Studi Cisl di Firenze, come scritto organico sull’azione formativa non solo nella Cisl, ma più in generale nel sindacato italiano.

Morelli volle intitolare il suo intervento: “Una formazione per il cambiamento”.

Rileggere tutto quel numero di «Prospettiva sindacale», a partire dal suo editoriale, fornisce, ancora oggi, spunti importanti: il fascicolo analizza, infatti, il sostanziale fallimento della più grande riforma organizzativa mai tentata dal sindacato confederale italiano, quella delineata dalla Federazione Cgil Cisl Uil a Montesilvano, nel 1979.

In un momento di forza del sindacato, la riforma organizzativa ipotizzava un allargamento della partecipazione democratica associato a un cambiamento istituzionale (da cui la scelta dei comprensori più piccoli delle province come dimensione organizzativa) e prevedeva l’efficace funziona mento di organi sub-nazionali di governo del mercato del lavoro (onde il rafforzamento della struttura regionale) e, infine, progettava una razionalizzazione del modello contrattuale (e, quindi, presupponeva rilevanti accorpamenti categoriali).

Per la rivista, la riforma di Montesilvano appariva un atto politico coraggioso, ma carente su un profilo essenziale: quello della sottovalutazione dei metodi di governo di un’organizzazione complessa come il sindacato e con un nodo più problematico di altri: la mancata valorizzazione delle risorse umane.

 Un tema che partiva dalla crisi del proselitismo (la sindacalizzazione in Italia era in calo da esattamente dieci anni prima) in un sistema in cui le adesioni contavano più per il potere che fornivano ai gruppi dirigenti (per la gestione delle risorse organizzative) che come strumento di legittimazione verso le controparti.

Nell’articolo di Morelli, come in altri contributi della rivista, era forte la convinzione che, nel progettare un qualsiasi modello organizzativo, occorresse dare priorità all’idea di un sindacato che si fondasse sulla centralità delle risorse umane esistenti al suo interno.

Una sfida in salita nella quale si rivelavano possibili e auspicabili tre condizioni: che ogni attività nel sindacato avesse pari dignità; che chiunque vi operasse avesse pari opportunità di crescita professionale; che la legittimazione politica prevalesse su quella burocratica.

Con alcuni problemi evidenti, si leggeva nell’editoriale scritto da Guido Romagnoli:

“Oggi, nel sindacato, occuparsi di informazione, ricerca, di rapporti con settori marginali del mercato del lavoro, significa aver possibilità di carriera solo se ci si dimostra omologhi al gruppo dirigente, o se ad esso si riesce a contrapporre una forte opposizione (il che è assai improbabile).

Il panorama che ne consegue è quello di un sindacato poco aperto all’ascolto delle domande dei rappresentati, se non quando questi minacciano di andarsene.

Dove i sindacalisti devono dialogare in primo luogo fra di loro, perché questa è la condizione della loro permanenza e la strada centrale della loro carriera nell’organizzazione.

Così la sindacalizzazione non è più un interesse centrale.

Così si scoprono ogni giorno nuove vie per l’acquisizione di risorse, esterne al consenso […].”

Tuttora significative alcune soluzioni proposte:

stare con la gente, non per rispecchiarne gli interessi, ma per promuovere il cambiamento, significa sempre di più raccogliere ed elaborare informa zioni, simulare scenari, inventare risorse, collaborare all’efficienza delle politiche pubbliche. […] L’esistenza di più carriere, fra loro intercambiabili, è la precondizione per l’incremento delle attività rivolte all’organizza zione del consenso: e di un consenso non particolaristico.

In questo contesto si inseriscono le proposte di Morelli sul tema della «professionalità» dei sindacalisti: un processo che richiedeva di inserire i percorsi formativi dei quadri in un contesto di crescita permanente e pianificata.

Se, si chiedeva ancora nell’editoriale Guido Romagnoli: le aziende in sviluppo […] arrivano ad avere fino al 10 per cento del proprio personale costantemente inserito in processi formativi: e in particolare nel lo studio e nell’aggiornamento sulle tecniche e sulle metodologie gestionali e organizzative. Per quali motivi succede oggi che gli uomini del sindacato facciano tanta fatica a «staccarsi» dal lavoro quotidiano e trovare spa zi istituzionali per la formazione, se non perché la loro carriera è legata al presenzialismo? […]

Curare le attitudini, la formazione e l’accumulazione «utile» delle esperienze (e perché no?) le motivazioni dei dirigenti: sono operazioni rese possibili da una semplice decisione di sganciamento della carriera dalle funzioni, che potrebbero rinnovare l’attenzione ai lavoratori e alla conoscenza non solo quotidiana dei cambiamenti strutturali e soggettivi cui essi sono soggetti […].

D’altronde, affermava Morelli, nel suo intervento sulla rivista:

Occorre allora fondare una nuova strategia su una «cultura della trasformazione» che non sia intesa come un prodotto prefabbricato da un gruppo di intellettuali, bensì come capacità di tutta l’organizzazione di conoscere, analizzare, comprendere e controllare i mutamenti in atto e di prospettiva, sia nelle fabbriche come nei servizi, nei pubblici uffici come nei territori, nelle strutture istituzionali come nelle organizzazioni sociali.

I problemi che deve affrontare oggi il sindacato richiedono una gamma ben più ampia di capacità e di strumenti di conoscenza, di proposta, di rapporti o confronti, di organizzazione.

Occorre quindi, ieri come oggi, nello stare nel sindacato, saper: “travalicare i confini”.

Ha scritto alcuni annifa un altro reggiano come Pippo Morelli, nel realizzare, con me, una sorta di spettacolo teatrale tra Don Lorenzo Milani e la cooperazione di comunità:

“La sovversione non guarda al passato, ne riprende semplicemente i linguaggi e il filo.

Tutti i cooperatori comunitari guardano a ciò che da lì deve venire.

Non cercano rifugi e permanenze, vi cercano nuovamente partenze e sconfinamenti. Non lo fanno da prigionieri, ma da esploratori.

Non fronteggiando il futuro, ma volendolo proprio, con tutto ciò che contiene.

Le montagne e i paesi li conoscono per ciò che erano e sono tanto grati ai loro proprietari da esserne autorizzati a vestirli di nuovo e scardinarne i confini.

Occorre prima esserne abitanti, poi occorre accettare di esserne i contrabbandieri, per ciò che vi si porta dentro e ciò che si porta fuori per la loro sopravvivenza, senza le dogane e i bolli che pretende il Mondo di sopra.

Montagne e luoghi.

Abitanti che condividono e contrabbandieri che portano dentro e fuori merci e persone.

Se non siamo del tutto l’uno e l’altro c’è poco da discuterne e da fare”.

(Giovanni Teneggi, Scardinare i confini, Testo per “I care - We Do!”, 2019)

 

Concludendo, mentre, nei prossimi giorni, mi appresto a percorre una parte del cammino di Santiago insieme a mio figlio Jacopo, penso a quanto mi siano rimaste, indelebili, scolpite nel cuore, le parole di Chiara Morelli, figlia di Pippo, durante i funerali del padre, nel giugno 2013, a Reggio Emilia.  

Come dice don Giorgio Basadonna, in un libro che per me è come una seconda Bibbia, sottolineava commossa Chiara, «non si sta fermi, siamo fatti per camminare, per crescere, per divenire».

C’è una lunga, lunga traccia che si perde nel cielo, che scavalca il tempo e approda all’eterno. Ma intanto si cammina.

Prendo in prestito da un bellissimo libro di Paolo Giuntella, scout come Morelli, le ultime strofe di una canzone francese: “L’appel de la route”, Il richiamo della strada:

Se il tuo cuore qualche volta

è catturato da grandi sogni,

 se tu cerchi le forti virtù che ci sollevano,

ben lontano dai sentieri battuti

 segui la strada senza tregua.

 Ohè, ragazzo, ragazzo,

 tu che cerchi, tu che dubiti,

 presta l’orecchio alla mia canzone:

 ascolta il richiamo della strada.

 Tu che conoscesti i molti segreti di questa strada,

 i calvari drizzati al cielo, sotto la grande volta,

 tu sarai per l’amore di Dio

 ogni giorno in ascolto.

 Quando la notte avrà diffuso il silenzio nel bosco,

 tu ti addormenterai senza paura, pieno di speranza,

 e la voce del Signore dentro di te

 sarà la tua ricompensa.

 

Camminiamo, seguendo un solco profondo, ma anche inventando nuove strade.

Senza risparmiarci, magari in sentieri poco battuti, ma senza rinunciare a cantare.

Ascoltiamo e, insieme, trasmettiamo, comunichiamo, il silenzio del bosco e, quasi allo stesso tempo, discutiamo la speranza nella città, e, perché no, nella fabbrica o nel sindacato.

Ogni giorno in ascolto, ogni giorno senza rinunciare a questa o ad altre canzoni, magari in lingue diverse, anche di fronte alle delusioni, agli avvitamenti della vita.

Cantiamo queste strofe, non solo con i nostri figli, ma anche con i tantissimi giovani che, con l’esempio e l’attenzione all’altro, possiamo coinvolgere nel sindacato e nell’impegno sociale.

Rispettando il loro solco, senza voler predeterminare le loro strade, senza aspettarsi alcunché in cambio, almeno a livello personale.

Si continuerà, infatti, a tornare e a ripercorrere insieme frammenti di cammino condiviso.

Proviamo, concludo davvero, a essere coerenti con i grandi e impegnativi lasciti: con quella luce che, con ostinata sobrietà, ci è stata indirettamente affidata.

Francesco Lauria

domenica 24 agosto 2025

LA PIANURA DEI SETTE FRATELLI, IL PRESENTIMENTO E LA MORTE DI GIORGIO, IL PERDONO E LA SETE DI GIUSTIZIA DI PIPPO



"E terra e acqua e vento / Non c'era tempo per la paura.

Nati sotto la stella / Quella più bella della pianura.

Avevano una falce / E mani grandi da contadini

E prima di dormire / Un padre nostro, come da bambini.

Sette figlioli sette / di pane e miele a chi li do?

Sette come le note / Una canzone gli canterò.


"Francesco, ma come mai prima delle testimonianze, a pag. 391, hai messo questa canzone, è un errore?"

Quando ho ricevuto questa telefonata dalla casa editrice, poco prima che: “Sapere, libertà, mondo”, il mio libro su Pippo Morelli, grande sindacalista di Fim, Flm e Cisl, andasse in stampa, ammetto di avere abbozzato un sorriso.

Questa stupenda canzone della band marchigiana dei Gang, dedicata alla vita e al sacrificio dei sette fratelli Cervi, non era un refuso, ma rappresentava qualcosa, per me, di intimamente importante.

Quella di Pippo Morelli e della sua famiglia è, infatti, una storia emiliana, come, in buona parte, la mia.

Affonda le radici, vale per tutta la mia terra, nella Resistenza partigiana, in uno spazio, come scrivono i fratelli Severini, nato: "sotto la stella, quella più bella della pianura".

Una terra delimitata dal grande fiume che ne congiunge le province e ne delimita il non invalicabile confine.

La mia generazione, adolescente nella metà degli anni Novanta del Novecento, è forse l'ultima ad essere cresciuta a contatto con la memoria viva della Resistenza, fosse essa rappresentata dai propri nonni o meno.

Ricordo come oggi i vecchi partigiani cristiani nel complesso dei Giardini di San Paolo a Parma mettere in ordine documenti e vecchie sedie, rispolverare quadri, racconti e memorie.

Tra quei partigiani, durante la lotta resistenziale, c'era anche mio nonno Anesio Finardi, scomparso prematuramente nel 1960, di cui ho racconti molti frammentati dei compagni di lotta, conosciuti superficialmente, come direbbero gli austriaci, "un attimo prima del Mezzogiorno".

Ecco, quella canzone dei Gang rappresenta la centralità dell'esperienza resistenziale della mia Emilia, certo un racconto spesso non sufficientemente plurale che ha oscurato per tanti decenni anche le proprie ombre.

E così, accostandolo al sacrificio dei sette fratelli Cervi e di Quarto Cimurri, non è contraddittorio ricordare anche Giorgio Morelli, il partigiano "Solitario", fratello di Pippo. Il primo ad issare il tricolore nella Reggio Emilia liberata, ferito gravemente, nel dopoguerra (nè morirà successivamente a soli ventuno anni) da ignoti sicari comunisti.

  La nostra pianura, come cantano ancora i Gang, ci dice ancora oggi che: 
"i figli di Alcide non sono mai morti" 
ci fa commuovere in mezzo alla nebbia, pensando a loro.

Ma ci restituisce anche le intense parole di Giorgio Morelli, tratte dal suo diario, scritte due giorni prima di morire, non per mano fascista, ma per mano appunto comunista, una mano fratricida, in quello che sarebbe stato poi definito, pur tra tante strumentalizzazioni, il "triangolo rosso", a guerra ampiamente finita.

Scriveva il Solitario: "Ho una tristezza infinita nell'anima. Quasi un presentimento che debba avvenire qualcosa di inatteso, di acerbo. Forse questa mia giornata terrena potrebbe non vedere l'alba di domani. Non mi spaventa la morte. Mi è amica, poichè da tempo l'ho sentita vicina. (...) 

Nell'istante prima del mio tramonto, mi prenderebbe una sola nostalgia, quella di aver poco donato. Oggi la mia confessione ultima sarebbe questa: l'odio non è mai stato ospite della mia casa. Ho creduto in Dio, perchè la sua fede è stata la sola e unica forza che mi ha sorretto".

Un'eredità non semplice da portare per Pippo, specialmente nel suo territorio. 

Ha testimoniato nel libro Massimo Storchi (era il periodo successivo al terremoto dell’editoriale, datato 29 agosto 1990, del comunista Otello Montanari sulle violenze partigiane del triangolo rosso: “Chi sa parli!”)

"Fu Morelli a chiedermi se avessi scoperto qualcosa di più sul fratello Giorgio. Il clima a Reggio Emilia non era semplice, ma lui non aveva quel più di astio, spesso visceralmente anticomunista, comprensibilissimo e piuttosto diffuso tra i familiari delle vittime della violenza politica comunista nel dopoguerra. Quello che Morelli cercava, con grande attenzione e sensibilità, era di conoscere meglio quello che era avvenuto al fratello, il contesto socio-politico e, ovviamente, anche le responsabilità. Pippo Morelli era stato capace di rielaborare il lutto. Non gli interessava il martirologio, ma un confronto aperto, maturo. Gliene sono sempre stato riconoscente".

Forse è per questo che dalla pianura, anzi dal grande fiume di mio nonno Anesio, che era di Colorno, le note e le parole si incamminano verso i monti, attraverso quei “sentieri partigiani” che Pippo Morelli contribuì a riscoprire proprio all'inizio degli anni Novanta del Novecento, da vice presidente del Parco del Gigante.

Me li immagino, nonno Anesio, Giorgio, Pippo, i sette fratelli, Quarto Cimurri, i fratelli Dossetti, Ermanno Gorrieri e Luigi Paganelli, incamminarsi verso altre terre emiliane che hanno conosciuto, contemporaneamente, un'immane tragedia e poi un sogno, infinito, certo a volte contraddittorio, ma genuino, di Pace e Giustizia.

Sì, non è breve, la strada della Pianura verso le Querce di Montesole. 

Ma io me li immagino davvero, insieme, tutti quanti 

camminare in salita e incrociare lo sguardo del cielo.

Penso all'esile figura di Don Giuseppe Dossetti che, decenni dopo, li benedice da lontano, con i loro canti...

"E in quella pianura / Da Valle Re ai Campi Rossi

noi ci passammo un giorno / e in mezzo alla nebbia

ci scoprimmo commossi.

Sette figlioli sette / di pane e miele a chi li do?

Sette come le note / Una canzone gli canterò.

Oggi, nella fine dell’estate del 2025, grazie alla giovane storica Marta Busani, ho un altro libro “morelliano” da leggere.

Si tratta della biografia di Giorgio Morelli, il Solitario, edita da Studium.

Una pubblicazione importante anche per riflettere su una Resistenza ed un antifascismo plurali.

La leggerò a Pistoia dove vivo, in quella che Francesco Guccini ha definito giustamente come la più emiliana delle città toscane.

Dalla città guardo, furtivo, i monti.

Penso, però, anche al mio grande Fiume e a una lotta per la libertà e la democrazia che molto è costata, ma in cui tantissimo, pur tra sanguinanti contraddizioni, si è anche donato e amato.

Francesco Lauria

 

ROSSO COME IL CIELO. GENOVA 1971, STORIA DI UN'AMICIZIA E DI UNA RIVOLTA: GLI "ORBI" E IL SINDACATO...


Ma tu ci vedi?

E i colori... come sono?

Sono belli.

Il blu, ad esempio, è come quando vai in bicicletta e il vento ti si spiaccica in faccia. 

Anche toccando il viso di una persona si può capire se è bella o brutta.

Sai, possiamo sentire anche la luna.

"La libertà è un lusso che noi ciechi non ci possiamo permettere!"

"Gli togliamo la cosa più bella che in questi anni si portano dentro: i loro sogni… "

No, non ce l’ho fatta oggi a non pensare a Domenico.

Fra pochi mesi saranno passati cinquantacinque anni dall’occupazione e dalla stupenda vertenza dell’Istituto per ciechi di Genova, David Chiossone.

Un’esperienza che dovremmo raccontare in tutte le scuole, le aule di formazione, e in tutti i luoghi in cui possiamo rieducarci a imparare dalla realtà rivoluzionante dei nostri sogni.

Già, noi ricordiamo gli anni Settanta per lo Statuto dei lavoratori, i diritti civili, magari le 150 ore per il diritto allo studio, il servizio sanitario nazionale, la svolta nella psichiatria. E, certo, anche per le stragi e il terrorismo.

Ma c’è una lotta, una vittoria apparentemente minore, su cui è bene soffiare via la polvere dell’oblio.

Una lotta che ho conosciuto anche grazie al sindacato, meglio ad un sindacalista, un punto di riferimento per la mia vita: Domenico Paparella.

Oggi, guardando i colori della fine dell'estate, non ho potuto non pensare a lui e a quella storia.

Nel 1971 nel nostro Paese i ragazzi ciechi non potevano frequentare la scuola pubblica. La scuola dei “normali”. 

Una legge lo vietava. 

Per loro si aprivano le porte degli istituti e percorsi di vita già preordinati, solo apparentemente “protetti”.

Come Mirco, il protagonista reale della favola cinematografica (Rosso come il cielo) che ha raccontato venti anni fa questa lotta, dalla Toscana, i bambini potevano essere costretti ad allontanarsi di centinaia di chilometri dalle loro famiglie, per arrivare a Genova.

C’è una data: il 5 marzo 1971.

La polizia caricò gli studenti ciechi dell’Istituto Chiossone di Genova e i loro amici. Quella data è un simbolo: significa l’inizio della rivolta degli handicappati, degli emarginati, l’inizio di una lotta per una nuova organizzazione sociale.

C’erano state tre precedenti rivolte negli istituti per ciechi: nel ’68 al “Cavazza” di Bologna, i cui studenti poi solidarizzarono con i compagni di Genova; nello stesso anno anche all’Istituto Configliachi di Padova, dove il movimento fu represso dalla polizia; nel 1970 all’Istituto di Torino, che fu chiuso per il radicalismo della protesta.

Come hanno scritto i ragazzi del Chiossone nel 2011, a Genova, nell’estate del ’71, andò diversamente: scesero in campo e in piazza, in difesa dei giovani ciechi rivoltosi, i consigli di fabbrica, la Flm e il movimento sindacale ottenne la riammissione degli studenti espulsi, le dimissioni del direttore e il commissariamento dell’istituto. 

La lotta aprì una nuova fase che portò al superamento dell’Istituto chiuso, all’inserimento dei ciechi nella scuola di tutti, all’integrazione sociale.

E Mirco, insieme al giovane sindacalista Fim Domenico, fu tra i protagonisti di una rivolta durata alcuni mesi per rovesciare quell’atteggiamento istintivo, così comune nei confronti della diversità che, anche se non di aperta intolleranza, è di imbarazzo e compatimento.

La negazione della libertà che il direttore dell’Istituto, cieco a sua volta, voleva imporre ai suoi studenti.



I ragazzi non vedenti del Chiossone, sostenuti dai consigli di fabbrica, dagli operai dell’acciaieria, da due grandi giovani sindacalisti come Domenico Paparella della Fim e Franco Sartori della Fiom, riuscirono non solo a lottare, ma anche a negoziare per i loro diritti, per liberare le loro vite. 


Una liberazione da quella che Franca Ongaro Basaglia, nell’introdurre il volume dedicato alla vicenda: “Lotte da orbi”, aveva giustamente definito: “falsa tutela e vera violenza”.

Ma non fu solo la storia di una lotta esistenziale, politica e culturale.

Come mi ha spiegato, ormai quindici anni fa, quando, per ricordare Domenico, ho voluto incontrare a Genova molti di quei “ragazzi del Chiossone” Claudio Cassinelli, protagonista della rivolta, poi divenuto responsabile dell’istituto, questa vicenda è anche qualcosa di più.

La storia di un’amicizia. Tra un gruppo di giovani ciechi e un sindacato potente, in una città industriale, un sindacato che sapeva guardare oltre da sè, rappresentarsi, viversi come cerniera e cura nella fragilità.

I ragazzi incontrarono, infatti, nella loro difficile mobilitazione gli studenti della scuola di assistenti sociali, i comitati studenteschi, i consigli di fabbrica e i sindacati - che minacciarono se non fossero stati ritirati i provvedimenti disciplinari contro gli occupanti, di spegnere l’altoforno dell’acciaieria - le comunità cristiane di base, gruppi giovanili dei partiti e dei movimenti.

Mondi diversissimi che aiutarono questi giovani a diventare soggetti del cambiamento, trasformando dapprima il Chiossone e poi frantumando le leggi e le pratiche, spesso arretratissime, sulle scuole differenziali.

Un nuova concezione di scuola per tutti stava, infatti, alla base di quella rivolta.

Mentre immagino Mirco, il ragazzo toscano, divenuto cieco per un tragico incidente a dieci anni, sperimentare le bobine di un vecchio registratore per poi diventare uno dei più quotati tecnici del suono del cinema italiano, penso a Domenico e al suo foglio in cui annotava, da contrattualista, da un lato le richieste dei ragazzi e dall’altro le risposte della direzione dell’Istituto. 

Contribuendo a sciogliere i nodi, uno ad uno.

L’amicizia tra questi giovanissimi e il “sindacato”, i sindacalisti, ci regala l’eco di una battaglia sociale e di riscatto esemplare. 

Gli ultimi si liberano e trovano il sindacato, il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori al loro fianco. 

No, non è un sogno, è la cronaca e la storia di quei mesi decisivi per la vita di molte persone.

Nella mia mente faccio un lungo salto di oltre dieci anni e da Genova mi catapulto a Chicago, nei primi anni Ottanta.

Penso a Barack Obama, giovanissimo avvocato di strada, in un contesto del tutto diverso, fare sostanzialmente la stessa cosa dei ragazzi del Chiossone e della Flm del capoluogo ligure: essere parte di un soggetto attivo e di relazione nel cuore di una comunità che si "auto-organizza", emancipandosi.

"Il passato non ci dà risposte, ma ci aiuta a formulare, meglio, nuove domande..."

Non dimentichiamolo. 

Mai.

Francesco Lauria

sabato 23 agosto 2025

Frammentazione delle esperienze e molteplicità delle condizioni: rigenerare sindacato e relazioni di lavoro, “oltre la marginalità”. Considerazioni su un prezioso volume di Michele Buonerba


In queste settimane di riflessione sulla vita, il pensiero e le azioni di Alex Langer, ma anche di tormenti interiori ed esistenziali, non ho potuto esimermi dal riprendere in mano il volume scritto da un ex sindacalista anche lui altoatesino, Michele Buonerba, oggi operatore/imprenditore sociale, ed esperto, tra molte altre cose, di: "rianimazione di comunità" e rigenerazione urbana.

Michele è un amico, oltre che un esempio: ha saputo girare completamente pagina da una lunga ed importante esperienza sindacale, senza rancori, ma anche con grande, preziosa libertà.

Di lui sarebbe stato certamente fiero proprio Pippo Morelli, con la sua esigente teoria (e pratica...), della necessità, per i sindacalisti, di sapersi reinventare e, anche, di saper/voler uscire dal sindacato (senza abbandonarlo!) per non essere ingabbiati da logiche pervasivamente burocratiche e autoreferenziali.

Riprendo quindi in mano il suo "lascito sindacale", pubblicato poco più di quattro anni fa dalla casa editrice della Cisl Edizioni Lavoro.

Il volume, senza dubbio alcuno ancora completamente attuale, da leggere e rileggere, si intitola: "Oltre la marginalità. Senza una buona rappresentanza, la rappresentatività perde efficacia".

Scrivevo su Il Bollettino Adapt nel maggio del 2021...

"Nell’autunno del 2020, mentre la seconda ondata della pandemia sorprendeva il nostro Paese e il mondo, Bruno Manghi, sociologo torinese punto di riferimento di generazioni di sindacalisti soprattutto, ma non solo, appartenenti alla Cisl, stava scrivendo la prefazione a un mio libro: “Sapere, libertà, mondo”. 

Fu così che lo chiamai per avere notizie del testo e ci rimasi un po’ male: per tutta la telefonata non mi parlò del mio volume sul sindacalista Pippo Morelli, frutto di dieci anni di lavoro e da lui ispirato, ma del libro di Michele Buonerba, che sarebbe stato pubblicato quasi contemporaneamente al mio da Edizioni Lavoro. 

Manghi ne era davvero entusiasta, io conoscevo bene l’autore, segretario generale da oltre un decennio della Sgb Cisl dell’Alto Adige, ma raramente avevo sentito il “vecchio zio”, in ormai non pochi anni di conoscenza, così soddisfatto di un’opera contemporanea di riflessione sul sindacato e sulla rappresentanza. 

Ebbene, anche se con autorevolezza infinitamente minore, dopo aver letto il volume, non posso che confermare la valutazione del nostro comune maestro: “Oltre la marginalità” del sindacalista altoatesino è un testo preziosissimo e coraggioso che affronta senza remore, come promesso nel sottotitolo, i nodi del rapporto tra buona rappresentanza e rappresentatività efficace. 

Il testo del sindacalista bolzanino ha una serie di pregi: mette a frutto (e a “nudo”) decenni di esperienza sindacale diretta, prima nella categoria degli edili e poi a livello confederale e indaga, con grande rigore scientifico e documentativo, il lungo processo di indebolimento del soggetto sindacale in rapporto agli orientamenti strategici sociali ed economici del nostro paese e a livello globale. Ovviamente il volume non si ferma alla disamina delle difficoltà, ma propone un ventaglio di “rigenerazioni” innovative. 

Il testo di Buonerba è un viaggio, una riflessione sulla rappresentanza e sul suo riconoscimento ed efficacia sociale; un percorso che non si ferma ai dati quantitativi, ma insiste sulla qualità dei processi democratici, associativi e contrattuali, senza sconti, senza autoreferenzialità, senza pigrizia. Sta forse proprio qui uno degli elementi di maggiore fascino del libro: è un testo di grande amore per il sindacato, si nutre della sua storia, del solco prezioso dei suoi passi, della sua identità, ma si concentra sulle esigenze nuove del mercato del lavoro, della tecnologia, dei cambiamenti antropologici e sociali e sulle risposte, i cambiamenti possibili, auspicabili, in alcuni casi urgenti, necessari, radicali.

Buonerba afferma: “nella società ci sarebbe una grande domanda di relazioni industriali efficaci se pensiamo al ridimensionamento delle tutele sul lavoro, ai salari reali che non aumentano, alla riduzione effettiva dei servizi pubblici e più in generale alle disuguaglianze divenute in certi ambiti addirittura insopportabili” e al tempo stesso prospetta una serie di innovazioni: “delle quali si parla troppo poco, ma che sono essenziali”. 

Si parte da lontano, da quarant’anni di crisi del sindacato e da una data ormai spartiacque: il 1980. Si affrontano quarant’anni di sfide di rinnovamento non pienamente colte e condizionate, oggi, anche dal fatto che l’urto economico e sull’influenza effettiva delle parti sociali sia stato assorbito soprattutto grazie a servizi, come quello fiscale, sviluppatisi a partire dai primi anni Novanta, senza arrestare i processi di messa in discussione del riconoscimento sociale del sindacato. 

Dopo il capitolo introduttivo, di natura storica e progettuale, il libro affronta il tema del modello di rappresentanza, da troppo tempo, secondo l’autore, immutato. La domanda di partenza, essenziale in un sindacato associativo come la Cisl, è se, nella vita sindacale, la partecipazione sia effettivamente esercitata. Il testo si sofferma sulla necessità, in particolare nei settori più fragili e frammentati, di “catturare” non “spettatori passivi”, ma di incontrare, informare, motivare lavoratori e lavoratrici interessati alla propria e altrui emancipazione. 

Nel proprio racconto “personale”, Buonerba si sofferma, ad esempio, sulle difficoltà di rappresentare, coinvolgere i lavoratori dell’artigianato dell’edilizia, cui il sindacato dà certamente alcune risposte attraverso la contrattazione territoriale e la bilateralità, ma che rimangono, troppo spesso, rappresentati di “serie B”. Allargando il campo, la riflessione si concentra sul contratto collettivo che, pensato per il lavoro subordinato, in molti ambiti pare non essere più cogente con la realtà produttiva, considerata anche l’ampia autonomia attraverso la quale sempre più si definiscono le mansioni. 

Un tema affrontato in “Oltre la marginalità” è quello della “contrattazione di sito” e della necessità di coordinare e rappresentare al meglio i lavoratori di stabilimenti o ambiti collettivi (ipermercati, aeroporti etc.) dove si applicano allo stesso tempo diversi Ccnl; situazione aggravata dall’eccessivo numero di contratti nazionali esistenti, dal crescente “shopping contrattuale” delle imprese e dai tanti, troppi contratti pirata. 

Un modello possibile che viene proposto come esempio virtuoso è quello partecipativo della tutela della salute e sicurezza dove, se in una determinata unità produttiva operano più aziende, il committente è responsabile dell’intero ciclo produttivo. Ma nel testo ci si spinge oltre, ipotizzando una soluzione davvero coraggiosa: “classificare i lavoratori sulla base delle abilità professionali che acquisiranno durante l’intero ciclo della vita superando l’attuale sistema che si fonda appunto sulle mansioni”.

Secondo l’autore, il sindacato, se vorrà essere ancora un soggetto in grado di determinare i cicli economici, dovrà necessariamente rigenerarsi attraverso un sistema di rappresentanza che gli permetta di rispondere ai nuovi bisogni emergenti della società. Se dovessimo riassumere il libro in uno slogan sarebbe questo: “ripartire, con la contrattazione, dai territori, dalla prossimità”. 

L’idea, forte anche delle esperienze maturate durante la pandemia, è quella di un ecosistema contrattuale basato sulle “reti di impresa”, e su una contrattazione territoriale interconfederale in cui soprattutto sanità integrativa, previdenza complementare, formazione continua, investimenti in vero welfare aziendale caratterizzato da una profonda relazione sussidiaria con i sistemi istituzionali regionali, siano i capisaldi di un’infrastruttura di rappresentanza che riparta dalle persone e dal loro ciclo di vita. 

Di fronte al dilagare delle disuguaglianze, Buonerba propone non l’idea di un “pronto soccorso sociale”, ma quella di una “partecipazione attiva ai processi di prevenzione nell’ambito del lavoro povero in espansione”. 

Per non rinunciare a esercitare la rappresentanza occorre reinventarla, in funzione di un nuovo modello contrattuale che dovrebbe essere riformulato attraverso una serie di obiettivi: “mettendo al centro la persona nel territorio in cui vive”. 

 Anche i servizi per Buonerba, possono essere essenziali se saranno ampliati al fine di redistribuire il reddito prodotto e ciò sarà possibile solo se: “il territorio sarà messo al centro dei processi di integrazione tra pubblico, privato e privato sociale”. 

Il fulcro della proposta del volume sta proprio qui: nuove frontiere di rappresentanza e contrattazione all’interno di un modello di welfare che possiamo definire come “dell’investimento sociale” volto alla crescita dell’individuo nell’ambito della comunità. 

In questo ambito, la mutualità, gli enti bilaterali e la sanità integrativa potrebbero essere uno strumento di sostegno a quei lavoratori che non avranno una prospettiva di una crescita rilevante dei lavoro salari in assenza di un mutato quadro del sistema contrattuale. 

Una sfida che, nell’ambito della sanità integrativa, ancor più che in quello della previdenza complementare, vede la necessità di una maggiore trasparenza e controllo del legislatore, oltre che un collegamento sistemico e pienamente sussidiario con la sanità pubblica. 

Anche la previdenza complementare e, più in generale, il welfare aziendale, devono profondamente ripensarsi, valorizzando, da un lato, gli investimenti in economia reale e dall’altro ampliando di molto il proprio raggio di azione, troppo sbilanciato nel Nord del paese e nelle imprese medio-grandi. 

La riflessione del libro non può esimersi dall’affrontare la questione della formazione professionale e continua, a partire dalle quattro “c”: “critica, comunicazione, collaborazione, creatività”. Molto interessante l’indicazione di investire sulle “Cci”, le “Comunità di conoscenza e innovazione” che sono luoghi fisici e virtuali per promuovere la cooperazione a livello locale tra il mondo universitario, industriale e istituzionale, valorizzando i corpi intermedi di ciascun territorio. 

Buonerba propone poi di rivedere radicalmente l’assetto contemporaneamente troppo frammentato (a livello settoriale) e troppo accentrato (a livello territoriale) dei fondi interprofessionali per la formazione continua. I contratti collettivi, inoltre, dovranno sì prevedere il diritto (anche soggettivo) alla formazione, ma anche la determinazione dei tempi, dei costi e del contenuto della stessa. 

In sintesi, il sindacato ha la grande opportunità di giocare un ruolo importante nel futuro delle nostre società a condizione di una sua rigenerazione territoriale che lo renda un animatore di “comunità intraprendenti” e al tempo stesso si giochi nella dimensione delle comunità che fanno e si fanno impresa. 

L’autore cita André Gide: “nessuno scopre nuove terre se non accetta di perdere di vista un po’ di spiaggia”, ed è consapevole della radicalità di alcune delle sue proposte, specialmente all’interno di una confederazione come la Cisl che fa, fin dalla propria fondazione, delle federazioni di categoria il proprio asse portante. 

L’obiettivo dichiarato è quello di rafforzare la relazione esistente tra coloro che negoziano e coloro che sono i destinatari del negoziato, attraverso un’idea forza: un rapporto sussidiario e non gerarchico dei livelli della contrattazione e una governance delle organizzazioni che favorisca la partecipazione attiva degli iscritti, soprattutto in tempi in cui le sedi sindacali si frequentano sempre più per soddisfare un bisogno (di solito individuale) e sempre meno per sviluppare processi democratici o di semplice discussione. 

L’autore ci ricorda che: “il futuro non si prevede, si costruisce, ma per costruirlo, attraverso un pensiero strategico, dobbiamo anticiparlo, imparando dai mega-trend, già oggi piuttosto indicativi” (si pensi solo alla questione della sostenibilità). 

Se il sindacato sarà percepito dalle persone come il soggetto che si prende cura della loro salute, della loro formazione, della loro buona occupazione, del loro reddito e, in generale, del loro benessere, sarà in grado di dimostrare come le trasformazioni sociali, anche a livello globale, potranno essere, se non completamente condizionate, gestite e governate, avendo cura delle nuove vulnerabilità e valorizzando, “democratizzando” le nuove opportunità che: “esistono e vanno colte”. 

Un testo: “Oltre la marginalità” immerso nel futuro, ma che si è nutrito di un filone antico di critica propositiva e di ripensamento progettuale sul fenomeno sindacale. 

Si pensi, solo per fare alcuni esempi, al celebre volume del 1977 di Bruno Manghi, edito dal Mulino: “Declinare crescendo. Note critiche all’interno del sindacato” o al testo di dieci anni dopo dello stesso autore: “Passaggio senza riti. Sindacalismo in discussione” (Edizioni Lavoro, 1987), fino al saggio di un intellettuale-sindacalista purtroppo ingiustamente dimenticato: Mario Zoccatelli: “L’innovazione difficile. Crisi e cambiamento nel sindacato italiano” (Edizioni Lavoro, 1989).

Infine una figura di grande spessore: operaio, sindacalista, intellettuale: Domenico Paparella. Un sindacalista cislino che, in un testo del 2008 (“Il divenire della Cisl. Il modello organizzativo ieri, oggi e domani”) aveva anticipato, almeno parzialmente, alcune delle intuizioni di Buonerba, in particolare sull’evoluzione delle strutture territoriali del sindacato e le relazioni che avrebbero dovuto intercorrere tra esse e lo sviluppo delle federazioni di categoria. 

Se, in sintesi, l’azione collettiva deve fare i conti con la frammentazione delle esperienze e con la molteplicità delle condizioni, essa dovrà percorrere alcune precise linee di sviluppo: tenere insieme i diversi, accettare e valorizzare la citata frammentarietà delle condizioni, dare peso alle persone, alle loro capacità, ma anche alle loro aspirazioni e ambizioni. 

Sono le sfide ambiziose per il sindacato del futuro che si costruiscono a partire dalle soggettività plurali, ma interconnesse, dei territori. 

Sfide che, come ci hanno insegnato i nostri padri e i nostri maestri, e, come è ben chiaro a Michele Buonerba e al suo preziosissimo testo, non possono essere solo “ipotizzate”, ma che vanno democraticamente e coraggiosamente discusse, continuamente aggiornate e, insieme, costruite concretamente, a partire dal nostro presente". 

Francesco Lauria 

A 18 anni dalla scomparsa. Lo scrigno scomodo dei diari di Bruno Trentin. E quelle domande ritrovate del 1990, in parallelo con Alex Langer



Il 23 agosto del 2007 scompariva il grande leader sindacale Bruno Trentin.

Ricordo come fosse oggi la camera ardente nella sede della Cgil e Giovanna Marini cantare tre, indimenticabili, brani durante i funerali laici: "Il tempo delle ciliegie", canzone simbolo della Comune di Parigi, "We shall overcome" e "Bella ciao".

"Lo scrigno scomodo dei diari di Bruno Trentin", pubblicato il 26 luglio 2017 su Conquiste del Lavoro, è forse il mio articolo più citato e ripreso. Ebbi, all'epoca anche la grandissima soddisfazione di ricevere dalla moglie di Bruno, la giornalista Marcelle "Marie" Padovani, un messaggio bellissimo, in cui riconosceva che ero stato uno dei pochissimi, forse l'unico, a comprendere e valorizzare a pieno la controversa operazione della prima, parziale, pubblicazione dei Diari dell'ex leader della Cgil.

Chi aveva vissuto il periodo raccontato da Trentin in quella prima pubblicazione, quello corrispondente all'intervallo 1988-1994, legato alla sua leadership in Corso d'Italia, infatti, non si riconosceva nei giudizi durissimi di Trentin, che, forse, aveva risparmiato un solo sindacalista, per lo più della Cisl, Eraldo Crea.

Penso, solo per fare un nome, ad Emilio Gabaglio che proprio non si capacitava della modalità di descrizione operata da Trentin, pur intimamente, di esperienze europee ed internazionali che avevano vissuto insieme.

Continuo a pensare che questi diari, certamente più di quelli successivamente pubblicati (questa volta in forma non integrale) nel 2021, siano uno scrigno scomodo, maledettamente utile e prezioso per tutti noi.

Un grido d'accusa e d'amore per il sindacato, ma anche una profonda introspezione, la cui severità verso se stesso di Trentin non era certamente inferiore di quella riservata agli altri.

Nel rileggere i miei scritti di Trentin e nel confrontarli con quelli su Alex Langer ho notato una cosa che mi era sempre, colpevolmente, sfuggita e che, a quanto mi risulta, non è mai stata fatta notare comunque da nessuno.

Nel marzo del 1990 Langer scrive delle sofferte ed illuminanti domande a se stesso (verranno ritrovate cinque anni dopo nel suo Pc); nel settembre del 1990 Bruno Trentin, attraverso il suo diario, fa la stessa cosa.

Qui il link alle domande di Alex Langer: https://web.peacelink.it/langer/langer_6.html

Per chi avrà la pazienza di rileggere il mio articolo su Conquiste del Lavoro più sotto sono anche le esigenti e profonde domande che Trentin pone a se stesso...

LO SCRIGNO SCOMODO DEI DIARI DI BRUNO TRENTIN

Come aprire uno scrigno: prezioso, quanto scomodo. E’ questa la prima sensazione che si prova leggendo le oltre cinquecento pagine dei diari di Bruno Trentin, recentemente pubblicate da Ediesse, a dieci anni dalla scomparsa del grande intellettuale ed ex segretario Cgil.

Uno scrigno ricco anche di momenti intimi e semplici, come quando il sindacalista si accorge delle piante germogliate nel suo ritiro di Amelia, in cui racconta della fuga dal temporale che sorprende lui e Marie (la moglie Marcelle Padovani) in Corsica, in cui sospende le sue, spesso amare, riflessioni sulla politica e sul sindacato o magari sulla natura del marxismo, per raccontare di una puntata fugace a Sperlonga. Senza dimenticare, ovviamente, le innumerevoli arrampicate in montagna, partendo dalla base di San Candido, che sarà anche il luogo della sua rovinosa caduta in bicicletta che ne determinerà la lunga agonia e poi la morte.

La pubblicazione dei Diari, curata con grande meticolosità e passione da Igino Ariemma, racchiude, integralmente e senza tagli, le ruvide e affascinanti pagine che accompagnano Trentin durante la guida della Cgil, come segretario generale, durante sei anni decisivi e turbino- si sul piano nazionale ed internazionale: dal 1988 al 1994.

Si tratta solo di una parte dei manoscritti conservati, che vanno dal 1977 all’agosto del 2006 (il momento dell’incidente), con l’esclusione del periodo 1999-2001, poiché il quaderno che conteneva gli scritti di questi due anni fu rubato a Trentin mentre era in viaggio a Parigi.

Il periodo pubblicato accompagna gli anni della caduta del comunismo nei paesi dell’Est e, conseguentemente, del crollo e della frantumazione del Pci e della fine, tormentata, viscosa, illusoria, della nostra Prima Repubblica. Marcelle Marie Padovanì tratteggia, nella sua breve introduzione al testo, gli “anni più difficili” del marito, l’acuta solitudine accompagnata da tre crisi: politica (all’interno e all’esterno del sindacato) esistenziale (con depressioni ricorrenti), di coppia (poi risolta positivamente).

Ma nei diari, come scrive Padovanì, c’è anche, in un contrasto deflagrante e affascinante, la gioia di vivere, l’esistere nell’arrampicare, un amore sconfinato per la lettura (e, a giudicare dalla mole dei diari, anche per la scrittura) di questo “intellettuale sindacalista”, come lo definisce Ariemma.

Nelle pagine di Trentin ci sono i momenti topici della “concertazione” e i tormentati accordi del luglio del 1992 e del 1993, ci sono viaggi di lavoro e di vita, alcuni poetici e profondissimi, come quelli in Messico ed in Sud Africa, e ci sono domande molto attuali, come quelle scritte a se stesso nel settembre del 1990: “Quale partecipazione? Quali rapporti fra la democrazia economica e l’umanizzazione del lavoro? Quale politica dei redditi: con la centralizzazione e la monetizzazione della contrattazione collettiva o con una politica fiscale manovrata? Quale contrattazione collettiva: su quale contenuti e dove? Quale il rapporto tra la difesa e la promozione del godimento dei diritti individuali e la contrattazione collettiva? Quale periodicità della contrattazione nazionale? Quale riforma istituzionale? E al servizio di quale governo dell’economia? Quale il posto dell’umanizzazione del lavoro e della riconversione ecologica nella politica economica dello Stato?”

Trentin anticipa e riflette sulle trasformazioni tecnologiche, le collega, spesso amaramente, con la perdita di potere dei lavoratori rispetto al governo dell’organizzazione del lavoro. Dai temi del lavoro passa spesso alla riflessione sulle diverse nature, di- verse vie del socialismo: sono le pagine che accompagnano, in particolare, il massacro di Piazza Tienanmen, con il suo rifiuto endemico della via autoritaria e totalitaria che soffoca la libertà e la democrazia, innanzitutto del lavoro, e il domandarsi come agire per far vivere, invece, “la via libertaria del socialismo, del primato della liberazione del lavo- ro come nucleo creativo della democrazia”.

Come già accennato, vi è poi tutto il tema della riflessione, amara e tormentata, sul sindacato come soggetto politico, la cui pulsione identitaria risiede nella concretezza del progetto e del programma: quel sindacato dei diritti spesso, anche recentemente, non ben compreso e misconosciuto, con eccessiva leggerezza e superficialità.

Il complesso delle variegatissime, a volte davvero sorprendenti letture di Trentin, puntigliosamente annotate nel diario, è un tesoro immenso per ricostruire il suo percorso intellettuale e, si direbbe, etico esistenziale, non solo per i saggi, ma anche per le novelle, i romanzi, i racconti, citati spesso in francese.

Uno scrigno da cui attingere, anche criticamente, così come, non è mai tempo perduto ripercorrere il solco di un uomo assolutamente unico nel panorama politico e sindacale italiano ed europeo.

Un’Europa, quella federata e sociale, che Trentin “ha nel sangue”, che desidera costruire concreta- mente (e per questo dedica alle burocrazie europee, anche sindacali, affondi durissimi) e che, come gran parte dei veri costruttori dell’Europa, ha maturato dentro di sé, valicando i confini, praticando la Resistenza, inseguendo le orme di un grande padre: Silvio Trentin.

 Gli spunti dei diari sono tantissimi: a partire dalla provocazione, anche per il pensiero di matrice cristiana, dei riferimenti, molto profondi, esigenti, riconoscenti, al personalismo francese.

Sul sindacato ci sono pagine dure e al tempo stesso ancora oggi attuali e interroganti, come la sua risoluta distanza dagli “scimmiottamenti dei partiti politici”, magari con la promozione di iniziative anche in campo legislativo, che possono minare l’autonomia dei soggetti sociali e far rischiare derive corporative.

E’ molto interessante, in tempi come quelli di oggi di disintermediazione ostentata, la sua riflessione su: “nuove regole che contengano nuovi diritti e nuovi doveri” sulla rappresentatività, sulla democraticità interna, sulle iniziative e il radicamento nella società in rapporto ai corpi intermedi.

Appare tuttora illuminante la polemica trentiniana sull’errore sindacale di soffermarsi solo sugli aspetti quantitativi e “salarialisti” della contrattazione collettiva, senza occuparsi sufficientemente della remunerazione della flessibilità, della formazione permanente (altra sua grande e antica intuizione), della professionali-tà, dell’organizzazione del lavoro. Aspetti di quella “libertà che viene prima” che è il fulcro del messaggio del Trentin di questi e dei successivi anni.

La veemenza delle pagine dei diari è riservata ad un sindacato (a partire dalla Cgil) e ad una politica (a partire dal PCI) che mantengono senso e valore solo se protesi ad un progetto, pur non ideologico, di società e che, invece, Trentin, all’apice almeno apparente della sua influenza sulla scena italiana, vede, con grande sofferenza e rabbia, troppo spesso limitati alle strategie e alle tattiche per l’accesso e la gestione del potere per il potere, in una tragica autoreferenzialità.

Il sindacalista, nella sua riflessione sulla sinistra e sul comunismo, è poi molto duro con il moderatismo falsamente riformista, ma anche con le “liturgie del movimentismo”, in particolare di quelle che predicano la “liberazione dal lavoro e non nel, attraverso, il lavoro”.

Si interroga, a cavallo tra anni ottanta e novanta, sulla “crisi del conflitto di classe” e sul “successo culturale e politico” della restaurazione liberale e conservatrice e disegna il profilo dei “nuovi diritti” come condizione culturale, conoscitiva, progettuale di un necessario cambio di paradigma. E’ difficile concordare pienamente con Igino Ariemma, quando, in conclusione del suo breve saggio introduttivo, ci parla dei diari come di pagine prevalentemente di speranza. 

Quello che traspare, in realtà, è un non contenuto tormento, una mai soddisfatta ricerca, un rigore a volte debordante, anche su se stessi. Sta proprio qui la profondità, la preziosità, l’autenticità scomoda di queste pagine: anche i giudizi che appaiono a volte livorosi e non sempre giustificati, si inseriscono in questo contesto: la ricerca di un’autorealizzazione della persona nella società che è percorso mai finito e mai soddisfatto di liberazione. 

Un percorso, è vero, non privo di temporanei “disorientamenti d’azzurro” e che termina, almeno nei diari pubblicati, con uno sguardo al cielo tra i monti: un tempo che tiene e che, almeno per un momento, ci lascia l’immagine finale di un Trentin: “più sereno, più fiducioso”.

Con questa provvisoria pacatezza, le pagine, solo per ora, si chiudono.

Francesco Lauria