Succede a volte che il destino ti riservi incroci fortunati.
Erano forse tre anni che non ci vedevamo con padre Arnaldo de Vidi, il missionario saveriano direttore della rivista Cem Mondialità, quando, per caso, sinceramente non ricordo esattamente il tragitto, condividemmo un viaggio su un treno regionale.
Se non erro, sono passati quasi venti anni, padre Arnaldo aveva già, di fatto, lasciato la direzione della rivista e si apprestava a tornare in missione in Brasile, dove, peraltro, ho omesso ieri, ha collaborato anche con la Fim (Fu Impresa Memorabile) Cisl (lasciamo perdere...)
Il mondo era scosso dalle reazioni del discorso di Papa Benedetto XVI° a Ratisbona, eravamo nel settembre 2006.
Ratzinger, nella sua Baviera, aveva sostenuto il forte nesso con il pensiero filosofico greco del cristianesimo, attraverso la sintesi tra Fede e Ragione.
C'era stato poi il passaggio, nel controverso e complesso discorso del Papa, sul rapporto tra Violenza e Natura di Dio, con la critica alla religione musulmana, attraverso il dialogo tra l'imperatore bizantino Manuele il Paleologo e un dotto persiano, dove si esprimeva un giudizio critico sull'uso della violenza per diffondere la fede nell'Islam.
Quest'ultimo passaggio che sembrava delineare un automatismo proprio tra Islam e violenza (dimenticando, peraltro, secoli e secoli in cui il cristianesimo si era imposto pesantemente con la spada), scatenò durissime reazione nei paesi musulmani e il "dispiacere" del Papa tedesco.
Padre Arnaldo era rimasto molto, molto perplesso dal discorso di Ratzinger, certamente, pesavano su di lui i durissimi trascorsi da cardinale di quest'ultimo, quando, a capo dell'ex Sant'Uffizio era risultato fondamentale e particolarmente punitivo nella reiterata condanna teologica di Papa Giovanni Paolo II rispetto alla teologia della liberazione, nelle sue varie forme.
Una delle critiche più severe di padre Arnaldo e Papa Benedetto era la totale, quasi per lui perversa, "occidentalizzazione" del cristianesimo e del cattolicesimo.
Un grave errore di fondo, secondo il missionario veneto, causa di strabismo e di non aderenza alla Parola.
Padre Arnaldo mi fece un esempio:
"Ricorderai la parabola dei pani e dei pesci. Qui in Occidente detta della "moltiplicazione".
In Amazzonia la narrazione è diversa, più aderente al Vangelo.
Gesù, non moltiplicò, infatti, proprio nulla.
Nulla di nulla.
Se non una cosa: la "fiducia".
E lo fece ottenendo il superamento della paura.
La paura della condivisione.
Ognuno infatti, aveva un pane e un pesce, anche di più, tra coloro che erano accorsi ad ascoltarlo.
Ma ogni persona temeva di essere tra i pochi ad essere dotata di cibo e che, tirando fuori il mangiare dalla sacca, gli altri, affamati, la potessero aggredire.
La Parola di Gesù, scioglie, invece, la paura.
E così si scopre che il cibo c'è, ed è abbondante, anche se non deve essere sprecato.
Il miracolo di Gesù non è quindi quello individuale del capitalismo della crescita infinita, mi disse padre Arnaldo, ma quello collettivo della circolarità dell'essere compagni e compagne, coloro che, letteralmente, "spezzano il pane (e puliscono i pesci), insieme."
E così, in questa ottica, quasi due millenni dopo, che due grandi maestri come Don Lorenzo Milani ed Ermanno Gorrieri ci hanno spiegato che: "NON si possono fare parte uguali tra disuguali".
Il valore spirituale, politico ed economico dell'uguaglianza, nasce da un'economia della fiducia e della felicità cooperativa, un'economia di comunione, in sintesi.
Il capitalismo neoliberale non è l'unica via, non è vero, come affermavano Ronald Reagan e Margareth Thatcher, negli anni Ottanta del Novecento, che non esistano alternative.
Le alternative ci sono, magari diverse, perchè il concetto di ricchezza e povertà, ad esempio, non può essere lo stesso a Parma rispetto ad Antananarivo o a Belem.
"Ma non solo - concluse padre Arnaldo, prima di raccogliere i suoi libri e scendere dal treno:
tutto questo ci dimostra che, se è vero che c'è una sola Verità, (non siamo dei relativisti!) esistono tanti modi, tanti cammini, tante culture, tanti doni, tante comunità ("cum munus") attivabili per raggiungerla, o, almeno, per camminare verso di essa."
Nella postfazione al mio libro: "Sapere, Libertà, Mondo. La strada di Pippo Morelli",Ivo Lizzola, nel paragrafo "La parola e il potere", sottolinea che:
"Nei luoghi di parola, di ricerca e di orientamento, di confronto e discussione (come dovrebbe essere il sindacato NdR!), occorre vivere la franchezza di quello che Raimòn Panikkar avrebbe chiamato: "dialogo dialogale", non orientato a convergere, all'uniformare, tanto meno al vincere sulle ragioni dell'altro; piuttosto teso a fare vivere nella agorà della parola spostamenti di visione e posizionamento, processi di approfondimento e scoperta di legami tra pensieri e aspetti diversi, ampliamenti delle prospettive. Sempre un po' incompiuti, ma nella consapevolezza del valore delle differenze, con ridisegni di proposte, di strategie e di posizionamenti organizzativi e personali".
Rimasi solo sul treno. Cominciava anche a fare buio, forse anche un po' freddo, indossavo solo una maglietta.
Ma quella conversazione e quel salutomi hanno accompagnato silenziosamente e opportunamente per venti anni.
In ogni gesto, in ogni respiro, in ogni percorso, personale, sindacale e politico.
Tra un poco più di un mese saranno cinque anni dalla Ascesa in Cielo di Padre Arnaldo de Vidi, scomparso il 2 febbraio 2021, all’ospedale Guadalupe di Belém (Brasile).
Missionario saveriano, originario di Roncade (TV), ordinato prete nel 1967, fu destinato alla missione di Taipei (Taiwan), dove giunse nel 1969, dopo un anno di studio dell’inglese negli Stati Uniti. Dopo lo studio della lingua cinese, diresse per due anni, dal 1971 al 1972, l’ostello per studenti universitari nella casa dei saveriani di Taipei.
Dopo la chiusura della presenza saveriana a Taiwan, p. Arnaldo trascorse alcuni anni in Italia a servizio del CEM (Centro Educazione alla Mondialità) e del Centro Cinematografico Saveriano (1972-1974). Nel 1975 ricevette una nuova destinazione, per il Brasile, dove trascorse il resto della sua vita – con un intermezzo in Italia dal 1996 al 2006 – come parroco, rettore dello Studentato teologico saveriano di Campinas, professore, direttore del Centro missionario della Regione episcopale Brasilândia di São Paolo.
Di ritorno in Italia, p. Arnaldo svolse principalmente il servizio di direttore del CEM-Mondialità, rivista cui iper saltuariamente ho collaborato anche io, dal 1998 al 2005, per poi ripartire definitivamente per il Brasile. Il suo ultimo impegno missionario in Brasile è stato quello di parroco ad Abaetetuba.
Amante del teatro e della poesia, p. Arnaldo è stato anche un missionario di punta, profetico, soprattutto negli anni della dittatura in Brasile e nel periodo della transizione alla democrazia, sempre a fianco dei più poveri, soprattutto dei “sem terra”. Si veda a proposito il suo contributo: “Il Movimento sem terra in Brasile”, in Pier Paolo Poggio (a cura di), L'altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Vol. 4: Rivoluzione e sviluppo in America latina, pp. 293-314.
Ieri, in una piccola chiesetta quasi di campagna, in provincia di Parma, ho incontrato tre doni, tutti bellissimi e tutti e tre poetici.
Il primo è stato un Cristo ligneo, sopra l'altare, senza la croce.
Un Cristo che non nasconde la propria sofferenza, non è per nulla maestoso, anzi è un Cristo fragile, vulnerabile. E, proprio per questo, bellissimo.
Eppure, proprio dalle sue ferite, dal suo costato è un Cristo che, in volo, ti abbraccia.
Non ti soffoca, ma dolcemente, con le sue lacrime ti avvolge e, lentamente, ti solleva, ti fa ascoltare il battito della Vita che attraversa la morte, ti fa intuire la Resurrezione, per la quale, però, devi confidare nella tua Fede, nella tua voglia, ostinata, di Credere.
Nella tua eresia puoi: "scegliere di credere".
Non ho una foto di questo Cristo ligneo, non mi pare nemmeno ci siano su internet e, anche questo, è davvero un miracolo :-)
Dovete chiudere gli occhi e immaginarlo, immaginare il Bene che attraversa il male e, rialzandosi, scendendo dalla Croce, senza dimenticarla, vola e ti abbraccia, in una preghiera condivisa ("dove due o più di due"), senza spazio e senza tempo, Eppure presente, concreta, gentile, reale.
Carne e cielo. Terra e cielo.
Ho pensato, in quel momento, alzando gli occhi sugli occhi dell'altro/a, che eravamo alla vigilia della seconda domenica di Avvento e mi sono venuti in mente gli ultimi auguri di Natale (o meglio, "verso il Natale") di padre Arnaldo, quello del 2020, nel pieno della pandemia del Covid.
Auguri giunti agli amici da Abatetuba (Brasile) che, come sempre, iniziavano in poesia.
Di lì ad un mese padre Arnaldo ci avrebbe lasciato, incontrando, ospite, il Dio che tanto aspettava.
Aspettavo Dio./ Il cuore mi assicurava
che Lui sarebbe venuto/ ospite da me.
Io l’immaginavo: sarà/ … un Angelo di luce,
… un Re munifico,/ … un Saggio canuto…
E l’aspettavo/ un mattino fiorito di primavera
un mezzogiorno solare d’estate,
un pomeriggio opime d’autunno…
Una notte di rigido inverno,
in braccio a una migrante,
piccolissimo, Lui è venuto.
Carissimi, scriveva Padre Arnaldo dal Brasile, eccoci a Natale, nuovantico quest’anno come mai.
La mia meditazione di Avvento iniziava così: «Perché, Signore, ci hai fatto psicolabili». Siamo tutti depressi a causa di un virus invisibile!
Ma non è solo questo: noi tagliamo il ramo sul quale siamo seduti (distruggiamo la natura, ingombriamo i nostri mari, surriscaldiamo l’aria, adulteriamo i nostri cibi…). Senza equilibrio, aderiamo a ideologie fatali, sacrificando nell’odio le amicizie più care. (...)
Ora sento compassione struggente, uberrima, una pietà paterna e perfino materna, viscerale, per il prossimo, per te, per me, per tutti. / Per noi non c’è l’autosalvezza. Siamo psicolabili, fragili, perciò dobbiamo dare e ricevere perdono, sopportarci, perfino nelle superstizioni e fobie.
«Pace in terra anche agli uomini di cattiva volontà», una mano femminile ha scritto sul muro di Ravensbruck, campo di concentramento per le donne."
Continuava il missionario trevisan-brasiliano:
"Non le nostre crociate, ma la misericordia di Dio ci salva. «Non temere, vermiciattolo di Israele: io vengo in tuo aiuto, io, il Redentore» (Is 41,14). «Signore, che cos’è l’uomo, perché te ne curi» (Salmo 8,5).
E il Signore viene contromano: per salvarci nasce fragile, piccolino, sai? / Ben vengano i vaccini, provvidenziali. Ma come non di solo pane vive l’uomo, così non solo i vaccini garantiscono la vita, ci vuole la Parola. «Su chi volgerò lo sguardo? Sul poverello che trema davanti alla mia Parola» (Is 66,2).
(...) Così troveremo grazia presso Dio che, attualizzando il suo Natale, viene a salvarci. Dolcezza infinita. Buon Natale."
Ieri, vigilia della seconda domenica di Avvento, lo ammetto, per me, è arrivato anche già Natale il (sono un impaziente e ieri sono stato anche molto fortunato), grazie ad altri due doni.
Ma sono doni feriali, di ogni giorno. Per questo, forse, più importanti ancora.
Domani, nell'ascolto del battito degli occhi della Verità, proverò a raccontarli...
E nell'ascolto della Verità (e domani padre Arnaldo ci spiegherà anche che non esiste un'unica strada/credo per raggiungerla...) può capitare, aspettando l'aurora, di imbattersi in un Notturno, forse il preferito, di Chopin...
“Mentre portavo questi
esempi mi sono veramente reso conto che non c’è una netta distinzione fra
guerre giustificate e guerre ingiustificate; sono tutte spinte da interessi
economici, politici e militari sommersi, sono tutte contro la povera gente, che
vede sconvolta la propria vita”.
Era il 29 maggio 1993 e frequentavo la terza media, sezione
C, scuola Don Lorenzo Cavalli (ancora non sapevo bene chi fosse stato) a Parma.
In una delle mie solite “aurore-albe” produttive ho
ritrovato per puro caso questo mio vecchio tema, infilato non so perché, nella
camera dei miei genitori, in una edizione consunta e vissutissima del celebre
libro di Andrè Gide: “I sotterranei del Vaticano”.
Il foglio mi è letteralmente caduto addosso mentre rileggevo,
in quarta di copertina, la sintesi del volume scandalo dello scrittore
francese.
In quella lontana primavera avanzata del 1993, non avendo
ancora compiuto quattordici anni, avevo scelto, in classe, la traccia numero
due che recitava così: “L’Italia ripudia
la guerra come strumento di offesa (come dovrebbero fare tutte le nazioni).
Secondo te quali sono le guerre giustificate e quali quelle ingiustificate”.
Avevo iniziato il tema dall’Italia, dall’aprile-maggio 1945,
dal quasi un milione di morti fra militari e civili nel nostro Paese.
In progressione avevo ricordato il giugno 1946, con la
scelta della Repubblica e il voto delle donne, il 1 gennaio 1948, l’entrata in
vigore proprio di quella Costituzione in cui è scritto, a carattere indelebili,
il ripudio (una parola scelta davvero opportunamente dai costituenti) della
guerra anche nel contesto delle controversie internazionali.
Scrivevo di quanto la nostra popolazione “volesse la pace,
ricostruire, ricominciare a vivere senza bombe (giustificate o ingiustificate
che fossero).”
Per esempi più recenti ero passato a raccontare, devo dire
davvero bene, del Libano (con Beirut devastata ex Zurigo del Medio Oriente) e
della Cambogia dei Kmer rossi e di quanto era avvenuto dopo.
Gran parte del mio tema veniva dedicata a quella che sarebbe
diventata la mia più grande, intima passione geopolitica: la Bosnia Erzegovina.
Eravamo nel pieno del conflitto della ex Jugoslavia ed io,
malato di geografia, negli anni precedenti avevo attaccato con le puntine nella
mia cameretta, dalla quale ora scrivo al computer, proprio una grande cartina
della terra degli "slavi del Sud".
Non sapevo allora che avrei scelto, rinunciando ad altre destinazioni
e ad altri concorsi vinti (ad esempio a Torino) per frequentare il corso di
laura in Scienze Internazionali dell’Università di Trieste, sede di Gorizia.
Un'università ospitata, in Via Alviano, in un seminario, allora non ancora ristrutturato, risalente ai primi del Novecento, alla fine dell'Impero asburgico, proprio sopra la "Casa Rossa", il confine internazionale in cui vennero fatti saltare, in un carro armato, disintegrati dalla milizia slovena, quattro giovani militari dell'esercito jugoslavo".
Nel 1998 vicino alla Pizzeria del valico internazionale (l'unico che, senza il lasciapassare dei residenti, la prepusnica, noi studenti potevamo attraversare), si vedevano ancora i fori dei colpi di proiettile, in territorio italiano.
Ma già nel 1993 avevo le idee chiare: confutavo con
attenzione le fake news più diffuse del momento, riprendevo le statistiche
ufficiali sui matrimoni misti a Sarajevo nel 1991, ricordavo come di fronte a
quel conflitto apparentemente assurdo, certamente ipercomplesso, con portati
storici, culturali e religiosi innegabili, innanzitutto non ci restasse che: “piangere
di vergogna”.
Dalla Bosnia, non senza un accenno al genocidio armeno del
1915 che avevo scoperto leggendo il capolavoro, per molti anni perduto, di
Franz Werfel: “I quaranta giorni del
Mussa Dagh”, passavo ad analizzare la vicenda del Nagorno Karabach e il
conflitto altalenante tra Azerbaijan ed Armenia, con un excursus sulla guerra
per “procura” con la Russia schierata per ragioni economiche e strategiche con
Erevan e la Turchia che per ragioni sia religiose che, soprattutto, di
influenza strategica ed energetica era schierata con Baku.
Non sapevo che, tra il 2004 e il 2005, avrei frequentato,
dopo la laurea a Trieste, a Parma, presso il Collegio Europeo della mia città,
un master internazionale con partecipanti italiani, provenienti dai Balcani e
dal Caucaso.
Capii il conflitto con il fatto che la mia compagna armena e
quella azera, ragazze tranquillissime e socievoli, per un anno non si rivolsero
mai non solo una parola, ma nemmeno uno sguardo.
Nemmeno per sbaglio. Nemmeno di nascosto.
Scoprii, tra il 1998 e il 2004 la Bosnia, sia nella parte a
maggioranza serba che nella federazione croato-musulmana partendo da Trieste e
da Gorizia, ma anche da Lubiana e da Zagabria. E partendo, con dolore, dalla lotta a quella vergogna e
a quelle giustificate e colpevoli lacrime cui facevo cenno nel mio tema del
1993, dedicai la tesi di laurea alle Agenzie (già Ambasciate) della Democrazia
Locale di Priejdor e Zavidovici, promosse, tra le altre, dal Consiglio d’Europa.
Luoghi della diplomazia popolare, di quell’Europa minore che citavo nel titolo della
tesi: l’Europa delle comunità e delle istituzioni locali, dei gemellaggi, della società civile, qualche
volta anche dei sindacati, delle associazioni. Certo non l’Europa
intergovernativa e antifederalista degli Stati Nazione, colpevoli, complici,
co-carnefici.
Vissi un po’ la Bosnia anche per alcuni anni dopo la laura,
penso all’esperienza bellissima dei Comitati Acqua Bene Comune, ai fiumi che
possono unire e non dividere, al nostro Isonzo-Soca, ma anche a quella Neretva,
protagonista della riapertura del ponte vecchio di Mostar, lo Stari Most, vissuta da
con un’emozione incredibile, dopo un avventuroso, condiviso, gioioso, faticoso
viaggio in pulmann proprio da Gorizia e da Trieste.
Una Trieste che, partendo proprio della nostra piccola “Gotham
City” isontina, alla fine degli anni Novanta del Novecento, ci sembrava,
sinceramente, una New York con lamontagna, il mare ed il confine, con le chiese ortodosse e la sinagoga, con una poesia, certo intrisa di venature di malinconia, ma anche di cielo, orizzonte, frammenti, oceani di infinito.
Un grande scrittore e giornalista triestino, Claudio Magris,
ha dato alle stampe un corposo volume che raccoglie molti suoi articoli dal
2017 ad oggi, intitolato: "Dura un attimo il giorno".
Solo alcuni titoli valgono, da soli, il libro: “L’adolescenza lieve di
Trieste”; “Lo specchio sa più cose di noi”; “Futuro”; “La speranza che ci rende
noi”; “Alla poesia serve la chimica”; “Indifesi perché smemorati”; “Un amore
oltre la storia”; “Le tre guerre mondiali”; “Il clown che urla nella chiesa”; “Gorizia
cuore d’Europa” (così mi perdonano Gotam City NdR); Riparare la memoria; “Il
coraggio della speranza”; “L’ombra senza qualità”; “Il necessario incanto”; “Via
Fani, la memoria negata”; “Scommessa con la morte”; “Bianco per la neve, rosso
per la vita”.
A Trieste, dopo aver bucato con grande sofferenza, un paio
di viaggi già previsti, dovrei tornare tra una decina di giorni, sulle tracce triestine
di un grande aclista e sindacalista europeo: Emilio Gabaglio.
Mi preparo al viaggio, grato, immensamente grato a Mario
Calabresi, Benedetta Tobagi, Sara Poma, Marco Damilano.
Nel loro bellissimo ed emozionante spettacolo: “Anni Settanta. Terrore e diritti” che
non posso dire solo di aver visto ieri sera, ma di aver proprio vissuto, come
fossi lì su palco con loro, con le loro fotografie, le loro canzoni, le loro storie, e loro famiglie, in
prima persona, con il cuore aperto, trafitto e piangente, certo, ma anche ispirato
e sconvolto di gratitudine e, soprattutto, di un passato che, nel nostro complicato presente, si fa generatore e tessitore di futuro.
Nell’incanto della riparazione della memoria, come nella
commovente storia, non a lieto fine, di Antonia Custra, raccontata con dolcezza
da Mario, persona che, esattamente come Benedetta, ha saputo, chissà con quale
insondabile percorso ricco di mistero e di fede, ha saputo trasformare la
propria ferita di morte in feritoia di luce, per se stesso e per gli altri,
tutti gli altri, ieri sera, al Regio di Parma, è capitata, quasi alla fine,
quasi inaspettatamente anche Trieste.
E' bellissimo sbirciare, Mario e Benedetta, insieme a Sara, quando si scambiano uno sguardo, un sorriso profondo, si sollevano insieme con una lieve pacca sulla spalla, con un silenzio complice che è dialogo, arma, Mistero di Pace, orizzonte di Amore.
Nel loro spettacolo, In quella “linea di sconfine” che la accomuna totalmente a
Gorizia, la Trieste (come la Gorizia) di Franco Basaglia è una meraviglia e un
monito per la memoria, proprio come tutti i Balcani, non solo la Bosnia.
Proprio come tutto il Causaso, non solo l’Armenia e l’Azerbaijan.
Il racconto di Marco Cavallo, quattro metri di altezza di scultura-utopia
concreta, una pancia piena di sogni di matti, uno scivolo di ghisa per scendere
dalle colline al mare, dal confine della devianza e della patologia a quella dell’incontro
con i “normali”, del dialogo, come mi ha scritto la mia amica parmigiana, sindacalista di Lesignano Bagni, come “nostra più potente arma di pace”.
Io che ho camminato sulle orme di Basaglia che, nella mia ex
compagna di Università Sara, ho incontrato il nesso umano, generativo dell’incontro
tra Trieste e Pistoia, non sapevo nulla di Marco Cavallo, di quella idea
geniale di Franco Basaglia, di quella scultura d’amore e di opportuna follia
che ha scaraventato via secoli, millenni di stigmi, di ghetti, di ripudi, di
atrocità, di “campi”.
In un abbraccio che non so quanto Mario, Benedetta e Sara
conoscano, ha incontrato i “matti da slegare”, in tutto il mondo, Africa
compresa, di Mario Tommasini, gli occhi d’amore di una sinistra avulsa dal
potere per il potere, dai bunker, dal conformismo, Colorno, il paese di mia madre.
Quanto ho amato gli occhi di Mario, proprio in quel 1998 in cui stavo per trasferirmi da Parma e Gorizia, in
cui abbiamo dimostrato che si può fare politica per amore e che “politica e
potere” non sono, non saranno mai la stessa cosa.
Mai.
Ce lo raccontano i sogni politici ed intimi dei matti raccolti da
Basaglia nella pancia di Marco Cavallo.
Planati, grazie ai tubi ricavati da una panchina di ghisa nella riparazione della memoria e nella sorpresa dell’incanto, sulla città della MittleEuropa, non solo del confine, dei confini.
Perché tra la certezza e il dubbio, tra il sospetto e la Fede,
tra la presunta normalità e la certificata devianza, c’è sempre, anche
oltre la scontata rima, la Speranza.
Quel sogno che ci hanno insegnato, meglio proposto,
Aristotele, Pierre Carniti, Franco Basaglia, Mario Tommasini, Antonia Custra, Mariasilvia
Spolato (insegnante, la prima donna, lesbica, in Italia, nel 1972, a fare
coming out pubblicamente, fatto che pagò con il posto di lavoro e terminando la
sua vita come senza dimora), lo dobbiamo fare da svegli.
Tra terrore (quello delle stragi di Stato e delle bande armate, di destra e di sinistra) e
diritti, non possiamo che sposare, ricordare, custodire, rilanciare, questi ultimi, in un’ancora di luce e di memoria riparata e riparante.
"Alzarci all’alba" come ci propone Mario nel suo ultimo stupefacente,
straordinario, opportuno, libro e, incontrando necessariamente, come ci
ha ricordato in un altro indispensabile volume, Benedetta Tobagi: “Una stella
incoronata di buio”. Senza mai rinunciare, con Marco Damilano, a continuare a ricercare, insieme: “Un atomo di verità”.
Mi ha scritto dal centro dell'Europa, questa notte, una donna, dono opportuno e benedetto nella mia Vita, in un kairòs di pace e di perdono: "Si riparte sempre avendo nel cuore il desiderio e la certezza di infinito".
Si riparte: "a un passo da domani" dalla Fede, dal bisogno, dal desiderio di: "Credere".
Si riparte, anche dalla musica, dalle parole, dalla Fede, dai silenzi di Fabrizio Moro, da un'"energia imbarazzata che costruisce",
L'algoritmo di Meta mi ha ricordato che, esattamente 6 anni fa, mi trovavo al Centro Studi Cisl di Firenze, con il collega Antonello Assogna, a condurre una serata, nell'ambito del corso lungo di formazione per contrattualisti privati, da me diretto per oltre dieci anni, sul ruolo del sindacato nel fare argine al terrorismo (ma anche nel costruire diritti sociali e civili) insieme a Luciano Pero, Bruno Manghi e Benedetta Tobagi.
In quella serata, ricordammo gli anni Sessanta e Settanta anche attraverso le canzoni, la musica: terrore e diritti, proiettili e note.
Era il dicembre 2019, ci trovavamo a cinquanta anni dalla strage di Piazza Fontana, ma partimmo, nella ricostruzione storica e sociale, dagli attentati che precedettero la prima strage di Stato e l'avvio ufficiale dell'eversiva e neofascistastrategia della tensione.
Con Bruno ricordammo il lavoro comune e l'amicizia con Licia Pinelli e la tragedia che portò alla morte del marito Giuseppe, con Luciano Pero ricostruimmo l'esperienza di Milano e di Lotta Continua, lo scivolamento verso il terrorismo rosso di non pochi militanti, addirittura una vera e propria quasi "condanna" (e mi fermo qui) pronunciata nei suoi confronti, "traditore" confluito nella Fim Cisl di Milano e nazionale di Pierre Carniti.
Benedetta, come in altre occasioni (la incontrai per la prima volta nel 2008 a Modena, insieme a Michele Tiraboschi e Savino Pezzotta, nell'ambito del mio dottorato di ricerca, presso la Fondazione Marco Biagi) fu splendida, con la sua passione e dedizione che nasce dalla sua vita, ma anche dalla sua ferita, dalla perdita violenta di un grande padre come il giornalista, saggista ed esperto di sindacato Walter.
I corsisti e le corsiste al Centro Studi Cisl di Firenze ascoltarono e cantarono: proprio come stasera tra terrore e diritti.
Questa sera, infatti, al teatro Regio di Parma, Mario Calabresi,Benedetta Tobagi e Sara Poma, anche con testi anche del mio amico Marco Damilano, metteranno in scena gli anni Settanta, proprio tra terrore e diritti, come facemmo, esattamente sei anni fa, al Centro Studi Cisl di Firenze.
Da settimane, a piccole dosi, leggo il libro di Mario: "Alzarsi all'alba" e ascolto i suoi podcast di luce nelle tenebre, di tenacia e ostinata speranza, di pozzi e di funi di risalita.
Sì, non vedo l'ora che sia stasera, perchè, come scrive Claudio Magris: "Dura un attimo il giorno".
E' una frase celebre attribuita ad Aristotele, spesso citata dall'ex segretario generale Cisl Pierre Carniti, che significa che la speranza è l'atto di sognare attivamente, immaginare e progettare un futuro desiderato mentre si è vigili, non solo durante il sonno.
E' la capacità di visualizzare obiettivi e desideri, trasformando i sogni in azioni concrete, e si collega anche ai "sogni lucidi", esperienze di sogni coscienti che permettono di esplorare e influenzare il sogno stesso, una forma di: "sognare da svegli" nel sonno, utile per il benessere e la creatività.
Ma più di tante parole, si possono chiudere gli occhi, immaginare occhi/orizzonti che si desiderano e ascoltare...
Ho sempre saputo, in cuor mio, ma l'ho anche detto fin da fine settembre ai quattro venti, che Onofrio Rota, come si dice degli allenatori di calcio che vengono esonerati anzitempo, non avrebbe mai mangiato il panettone.
Ciò che avevo previsto e comunicato è, oggi, avvenuto.
A settembre ero in cammino verso Santiago de Compostela, non da solo, quando ricevetti la sua, per me, davvero infame lettera, in quanto segretario generale della Fai Cisl, in cui mi minacciava di varie azioni perchè, non si sa dove e come avrei detto che: "aveva formulato delle critiche alla segreteria generale Cisl".
In realtà io Rota proprio non lo pensavo nemmeno col binocolo, ero concentrato sulle ultime tappe del cammino, sugli occhi di mio figlio, sulla fatica di amare e camminare insieme.
Proprio non lo vedevo, nemmeno come una formica piccola piccola.
Rota da mesi mi formulava, ovviamente riservatamente, critiche durissime alla segreteria generale Cisl sia da un punto di vista sindacale che umano, etico.
Nessun reato, per carità, ma vicende da far accapponare la pelle, avvenute soprattutto nella sua e altrui regione d'origine: la Puglia.
Sembrava davvero colpito dalla mia vicenda (che era già incredibile allora, figuriamoci dopo...) mi chiamava spesso lui, ed era un dei pochissimi a farlo, mi offriva vie di uscita, futuri posti di lavoro in enti bilaterali come Enpaia (Centro Studi della Fondazione o una cosa delle genere).
Il passaggio della sua lettera, invero davvero superfluo, in cui mi intimava di non informarlo più della mia vicenda personale, mi è parso forse la cosa più vigliacca che ho incontrato in vita mia e lo è ancora, nonostante in questi mesi abbia visto e vissuto di tutto.
Quando decisi di "vuotare il sacco" prima direttamente con Daniela Fumarola (e con Rota in copia, io sono una persona trasparente) e poi sia in audizione disciplinare in Via Po che di fronte, più recentemente, ai probiviri, in Via Lancisi, sapevo che avrei colpito duro.
Durissimo.
Ormai solo fare il mio nome in Via Tevere, a Roma, la sede della Fai Cisl era certezza di essere convocati a rapporto.
Avevo dato troppi riscontri circostanziati per non essere creduto, in confederazione, al 101%.
Ovviamente in silenzio.
Perchè questa Cosa che è diventata la Cisl colpisce prevalentemente in silenzio, a volte persino sorridendo, facendoti credere di essere al sicuro.
Sapevo che Rota non poteva durare, che si sarebbe dimesso da segretario generale della Fai Cisl, magari non solo per la mia vicenda, poichè le contese con Daniela Fumarola erano antiche, radicate, plurime, multiformi.
Non voglio nemmeno sopravvalutarmi.
Pensavo che sarei stato felice di fronte alle dimissioni di Onofrio Rota (che quando ho compiuto la mia recente audizione presso il collegio dei probiviri il 26 novembre scorso veniva dai miei interlocutori già trattato implicitamente come un: "sindacalista estinto", almeno così mi è apparso, da subito).
Non lo sono felice del tutto, in realtà.
Mi spiego meglio.
Ha scritto un mio caro amico in una dedica ad un suo bellissimo libro:
"Solo chi ha conosciuto la vulnerabilità e la delicatezza della vita può comprendere l'urgenza di rigenerare il vivente..."
Mentre leggevo, casualmente, delle dimissioni di Onofrio Rota da segretario generale della Fai Cisl, stavo, in realtà, leccandomi le ferite, umane e sindacali, da plurimi tradimenti, abiure, utilizzi personali della mia buona fede e della mia sete di giustizia, silenzi, omertà, opportunismi.
Ero così stanco di provare dolore e freddo, così vulnerabile, che ero andato a letto poco dopo le otto di sera.
Ma poi mi sono svegliato in un buco nero, un pozzo che mi sommerge, ma che non mi sovrasta.
Una canzone dei Nomadi,"La vita che seduce", recita più o meno così: "Se il mondo appare un'illusione e tutto ruota (Rota?) su se stesso, si accende nel buio nel buio un'ancora di luce."
Se la vita, come il successo, il potere fugge via, il tempo non è altro che una dimensione.
Di fronte alla desolazione, non bisogna cedere. Bisogna cercare un'ancora di luce.
Ho imparato in queste ultime ore, su una vicenda che mi ha scaldato il cuore, che non tutto è bianco o nero, che occorre tacere prima di parlare, che si può fare del male, a più persone, senza nemmeno lontanamente volerlo.
Per questo non riesco ad essere felice delle dimissioni (agognate da me nel recente passato, lo ammetto) di Onofrio Rota.
Tutto sommato, nonostante la pavidità e doppiezza che ha dimostrato con me, non è stato, credo, un cattivo segretario generale, almeno, è la parte che conosco meglio, nei rapporti esterni della sua federazione di categoria.
Ha saputo interloquire con tanti mondi, sperimentare linguaggi diversi, a partire da quello del cinema.
Mi è stato chiesto da una casa editrice, nemmeno piccola, di scrivere un romanzo su quello che, in questi mesi, ma anche in venti anni di impegno e passione, mi è accaduto in Cisl.
Chissà che, curate le ferite più brucianti, io non ci riesca.
Ho maturato faticosamente dentro di me che l'incontro con l'altro, anche quello che ti tradisce che abiura di te, è sempre un dono.
Se la Rota gira nel sindacato, come mi è stato detto in tempi non sospetti da una giovane dirigente in carriera, tra l'altro cercandomi di dare un po' di speranza, non con cattiveria, io rimango, sotto un certo aspetto, fermo.
Continuo a pensare che il sindacalista debba occuparsi di lavoratori e lavoratrici, non solo di altri sindacalisti per farli fuori.
Che il sindacalista i lavoratori e le lavoratrici debba innalzarli facendosi piccolo insieme a loro, costruendo, insieme ai lavoratori e alle lavoratrici, percorsi di liberazione, emancipazione, consapevolezza, tutela, contrattazione e anche sogno.
Già, come diceva Pierre Carniti, a modo suo, io lo dico a modo mio, non si può disgiungere una parola concreta come sindacato da una parola altrettanto concreta come: sogno.
Certo è un sogno che si compie da svegli.
Ma in cui l'altro può essere magari anche una ferita da curare, mai non è mai un nemico da abbattere.
Nemmeno, pensa te, Onofrio Rota da Treviso/Taranto, soprattutto ora che il potere, tanto sospirato, lo ha perso in uno schioccare di dita.
E mai lo recupererà.
Se la notte si fa buia, Onofrio, occorre imparare a scaldarsi di Luce e di Speranza.
E’ uscito il famoso, atteso libro di Guido Baglioni sulla Cisl.
Devo essere sincero, già dalla copertina, dal mio punto di vista, non promette bene, sono “spariti” Bruno Manghi e Gian Primo Cella, concordati
peraltro sia con Baglioni che con Edizioni Lavoro (che ovviamente, come al
solito smentirà, ma non me ne frega davvero nulla, tanto ho i messaggi) ed è
apparso qualcun altro/a.
Leggerò con grande attenzione l’ultima versione del libro di Baglioni, avendo nella mia disponibilità tutte le precedenti, anche se,
temo, ne rimarrò addolorato.
Detto ciò, preferisco ricordare un nostro incontro migliore e
cioè la testimonianza di Baglioni che ho registrato, nel 2021, per il
settantesimo anniversario del Centro Studi Cisl.
Baglioni, tra le tante cose (alcune condivisibili, altre
meno) lancia un messaggio molto importante, quasi alla fine dell’intervista:
Afferma l’anziano professore:
“Il pericolo che la
Cisl rischia di correre è il “quieto vivere”, svolgere l’ordinaria
amministrazione tradizionale, senza impegni, senza novità.
Il sindacato non è l’azione
confederale a livello di Roma e Bruxelles (sempre più importante rispetto alla
prima), ma è quello che avviene nelle categorie, nelle aziende, con i
contratti, con il welfare.”
La mia ampiamente motivata e certamente iper sofferta decisione di lasciare, anche da socio, la Cisl è stata come sempre, in questa organizzazione ormai, a mio parere, moribonda, mal commentata.
"Hai visto Lauria, si è fatto foraggiare, secondo me gli hanno dato almeno 50.000 euro per ritirarsi".
Queste voci che ho raccolto in almeno tre regioni fanno sorridere.
Ci sono plurime querele e richieste di danni (da parte mia e, come dice la Cisl da parte di "numerosi colleghi" che poi altro non sono che dirigenti del "sistema").
C'è poi il licenziamento infame, nullo, gravatorio, ritorsivo, discriminatorio, illegittimo che è stato impugnato d'urgenza come hanno riportato numerosi quotidiani nazionali.
Io, dopo aver letto i primi, per me, incredibili sette lodi dei probiviri, pensando a Pastore, Storti, Macario, Carniti, Marini, come ho scritto al collegio dei probiviri stesso, ho preferito lasciar perdere gli altri 25 ricorsi (tanti erano, alcuni alla stessa persona).
Ricordo che già tre dirigenti importanti sono risultati NON ISCRITTI a seguito dei procedimenti da me intentati: Andrea Benvenuti, Danilo Battista, Roberta Roncone.
Di Alessandro Potenza due categorie, la Fai Cisl e la Cisl Scuola negavano a vicenda che fosse loro iscritto (poi magari la tessera si troverà magicamente).
Ricordo inoltre che, a seguito del mio ricorso sulla mancata pubblicazione delle retribuzioni dei dirigenti (violazione del Codice Etico Cisl), non solo la segreteria confederale, ma tutte le segreterie territoriali e categoriali hanno dovuto ricorrere o stanno correndo frettolosamente ai ripari.
Insomma, non ho preso nemmeno un euro. Anzi.
Semplicemente, siccome sono esausto, ho preferito evitare di farmi prendere ancora sonoramente per i fondelli.
Tutto qui.
Ma c'è un ma.
Il 19 novembre scorso il segretario confederale Ignazio Ganga ha presentato una davvero incredibile memoria difensiva al collegio dei probiviri insieme al suo avvocato.
Oltre ad annunciare incredibili ricorsi alla magistratura solo perchè un dipendente come me, per di più licenziato ingiustamente, aveva preannunciato di voler far valere i propri diritti (a uno che lo aveva già a settembre "messo in mora"") i due hanno scritto questo incredibile concetto:
"Non vorremmo arrivare a pensare che il Dott. LAURIA considerato il rilevante numero delle persone segnalate al Consiglio dei probiviri, voglia porsi come grimaldello per indebolire il sistema confederale democraticamente eletto."
Fa già ridere così. O meglio fa già piangere così.
Un uomo rivoluzionario, costruttore di ponti, valicatore di muri.
Un viaggiatore leggero e notturno, un cristiano non dogmatico in ricerca, un politico visionario, concreto ed inquieto, apostolo della convivenza interetnica e della conversione ecologica, e non solo.
Un evento maltrattante e imprevisto, quasi traumatico, dei diversi che mi sono capitati in queste settimane, mi ha privato della possibilità e delle forze per partecipare all'incontro online su Langer con Uwe Staffler (ultimo assistente e amico di Alex), che avevo organizzato insieme al canale Youtube Rosso Fastidio, con la conduzione di Filomeno Viscido.
Non è stato, alla fine, un male, Uwe ha avuto più spazio e così, indirettamente, ha avuto più spazio, più respiro Alex.
E respirare il respiro di Alex, a oltre trent'anni dal suo tragico suicidio, da quel maledetto albicocco a Pian dei Giullari a Firenze da cui ci ha chiesto, nelle sue tre diverse lingue, di "continuare in ciò che era giusto", ci può ancora rendere più veri, più dolci, più lenti, più profondi, più umani.
Mi sento di suggerire di ripartire dalle prime due domande, risalenti in realtà al 1990, ritrovate, dopo la morte, nel computer di Alex:
"Cosa ci può realmente motivare? Cambiare il mondo o salvaguardarlo?"
Alex ci accompagna in questa prima domenica di Avvento.
Risuona, nei suoi occhi, la Prima Lettura tratta dal profeta Isaia:
"Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,
dalle loro lance faranno falci;
una nazione non alzerà più la spada
contro un'altra nazione,
non impareranno più l'arte della guerra (...)"
Più intimamente, insieme ad Alex, oggi ci parla nel profondo anche San Paolo Apostolo, con la sua Lettera ai Romani:
"Fratelli, questo voi farete, consapevoli del momento: