Ricorderò sempre, ormai diversi anni fa, quando raccontai a mio figlio Jacopo, mentre insieme, salivamo a piedi a Barbiana, attraverso i sentieri della Resistenza e della Costituzione, che, oltre alla scuola di Don Lorenzo, avrebbe visto una piscina.
Era piccolo e, allora, potevo usare immagini e metafore che oggi forse non apprezzerebbe così tanto.
Come avevo detto prima che a lui a centinaia, forse migliaia di sindacalisti (si, perchè al Centro Studi Cisl di Firenze, dal 2018 in avanti, tra Fiesole e Barbiana, ho organizzato decine e decine di iniziative, mostre, spettacoli teatrali, convegni, riflessioni, dibattiti, corsi, camminate, su Don Lorenzo e la sua scuola) alla scuola c'è il mare.
C'è il mare, perchè c'erano decine e decine di bambine e bambini che il mare non lo avevano mai visto.
Che avevano paura dell'acqua e di nuotare.
Fu così, che utilizzando l'acqua di fonte proveniente dal Monte Giovi, Don Lorenzo e i suoi ragazzi, un po' spostata, dopo la Chiesa e la canonica, hanno costruito una piscina.
Mi dicono non sia stato facilissimo.
All'inizio hanno anche sbagliato le pendenze.
Ma dagli errori si impara, dalle cadute ci si rialza.
Spiegavo quindi a Jacopo, mentre salivamo insiemem che a Barbiana avrebbe visto tante cose, tra cui il Santo Scolaro, ma anche e soprattutto il mare.
Non si nuota di solito, se si ha paura dell'acqua, se si teme di perdere il respiro, si teme di perdere la Vita, da soli.
Si nuota insieme.
Insieme contro la paura.
Oserei dire anche contro la violenza.
Oltre la paura dell'altro, oltre la paura di se stessi, di non farcela, di non riuscire a guardare chi si ha di fronte, a partire dalla sue ferite, ma anche dalle sue feritoie, da una luce che, a volte, può anche abbagliare, bruciare.
Imparare a nuotare, insieme.
Questa è la piscina, il mare, l'oceano di Barbiana, come, prima di me, ha scritto una rivista che oggi purtroppo non c'è più e che si chiamava, non a caso, Il Margine.
Per questo bisogna continuare a salire (e poi, pieni zeppi di Speranza a scendere) rispetto a Barbiana.
Bisogna continuare a sfidare la paura di questo tempo infame, buio.
Nella piscina, a un certo punto, ho visto le fotografie e un filmato, non si faceva che ridere e scherzare, altro che Don Milani serioso.
Don Lorenzo guardava e sorrideva, già gravemente ammalato.
A Barbiana, alla piscina della scuola, con la Fim Cisl e Paolo Landi, allievo di Don Lorenzo. Il fotografo è Jacopo.
Oltre Barbiana, se si hanno ancora gambe, si può salire ancora, tra i pascoli di montagna del Monte Giovi.
Si può respirare sapere e libertà.
Si può avere sete di Giustizia.Insieme.
Che poi è l'etimologia della parola, dell'essere Sindacato.
Quello vero, quello che ti inonda di giustizia e ti fa superare la paura, ogni paura.
Proprio come la piscina, il mare, l'oceano della collina di Barbiana.
Bambine e bambine che sconfiggono insieme, e in ogni tempo, anche il nostro, la paura.
Istante immenso di Speranza condivisa.
Ci vediamo a Firenze, in cammino tra Fiesole e Barbiana, sabato 31 gennaio, dalle 10 alle 17, proprio come diceva Pierre Carniti:"Sognando da svegli", proprio come diceva Don Lorenzo: "Prendendo Parola".
Ringrazio il mio amico Gianni Alioti per la segnalazione
dell'intervista, pubblicata il 20 dicembre scorso dal quotidiano Il
Manifesto, ad Angela Mendes, figlia di Chico,
il sindacalista seringueiro amico degli alberi, ucciso dalla
mafia dei latifondisti estrattivisti, ovviamente con la complicità
delle istituzioni brasiliane, il 22 dicembre del
1988.
Cresciuto con la voce ispirata di Augusto Daolio in "Ricordati
di Chico", ho sempre saputo, fin da piccolo, chi sia stato Chico
Mendes, l'ho sempre ammirato con tutto me stesso, ben prima di occuparmi
direttamente di sindacato.
Poi ho scoperto anche la bella canzone Chico Mendes dei Gang,
contenuta in un album capolavoro come: "Le radici e le ali" e,
ovviamente, divorato il libro di Gianni : "Chico Mendes. Un
sindacalista a difesa della natura", pubblicato da Edizioni
Lavoro.
Su Chico Mendes ho scritto anche io, varie volte e, in particolare, a
trent'anni dalla morte, su Conquiste del Lavoro, il quotidiano
della Cisl (quando mi ci facevano ancora scrivere) e su C3dem, il
portale Costituzione, Concilio, Cittadinanza.
L'attualità di Chico Mendes è spiegata, perfettamente,, nella
sua bella intervista dalla figlia Angela, dal Brasile, dall'Amazzonia, dopo il
totale fallimento della Cop30 di Belem.
Molto più vicino a me ho scoperto un sindacato (si, lo
voglio dire, una federazione di categoria della Cisl) che,
anche durante alcuni direttivi, non smette, con i propri delegati e le proprie
delegate, di abbracciare gli alberi.
Se non è il rito di un giorno, si tratta di un seme, giovane, di
futuro, proprio di quelli di cui ci parla Angela Mendes.
Non perdiamo la Fede.
Crediamoci ancora, ritroviamoci, non solo in teoria, ma nell'azione quotidiana, di ogni
istante, nelle parole concrete di Angela Maria Freitosa Mendes....
Francesco Lauria
Sara Segantin (BELEM)
Brasile Il 22 dicembre di 37 anni fa veniva ucciso Chico Mendes, la figlia
Ângela ne ha raccolto l’eredità continuando la lotta per la giustizia
socio-ambientale dei popoli dell’Amazzoni
Ângela Maria Freitosa Mendes aveva diciotto anni quando suo padre fu
assassinato. Era il 22 dicembre 1988 e Francisco Alves Mendes Filho, noto al
mondo come Chico Mendes, venne ucciso a sangue freddo nella sua casa, a Xapuri,
da Darci Alves da Silva, figlio di un bovaro locale. Chico, seringuero –
raccoglitore di gomma – e attivista ambientale, è l’icona dei martiri
dell’Amazzonia. Ângela continua la lotta del padre, con gli empates, barriere
umane contro il disboscamento, e tramite il Comitato Chico Mendes, con cui
lavora per la giustizia socio-ambientale tra pressione politica, iniziative
culturali e formazione di giovani leader della foresta.
A quasi quarant’anni dall’assassinio di Chico Mendes, cosa resta della sua
eredità?
Mio padre lottò per il diritto al territorio e all’educazione; diritti
basilari ai quali chi vive nella foresta e nelle periferie non ha accesso. Quel
che riuscì a fare Chico è la prova che possiamo ottenere questi diritti solo
con un lavoro collettivo. Tutta la sua vita parla di collettività: non è
possibile avanzare come società se non coltiviamo una spirito di unione, perché
viviamo nella stessa casa, condividiamo la stessa casa, respiriamo la stessa
aria.
Come iniziò la lotta di Chico? Qual era il cuore del conflitto in
Amazzonia?
Lui era un seringueiro, un raccoglitore di lattice dagli alberi di caucciù.
I seringueiros vivevano nella foresta da generazioni, il loro stile di vita si
ispirava a quello dei popoli indigeni. Mentre il governo imponeva
un’organizzazione del territorio fatta di lotti e linee rette, estranea alla
realtà amazzonica, i seringueiros seguivano il tracciato delle estradas de
seringa, i sentieri della gomma, che non sono diritti, si distribuiscono
organicamente nella foresta, come i corsi d’acqua. Era il modello che gli
indigeni già adottavano per la demarcazione delle terre. I fazendeiros –
allevatori e latifondisti volevano trasformare la foresta in pascoli di
bestiame, spesso con incentivi statali, così bruciavano tutto e uccidevano chi
si opponeva. Per reagire, i seringueiros organizzarono assemblee, coinvolsero i
popoli indigeni, ascoltarono le loro esperienze e visitarono le loro terre. Nel
1987, Chico e il leader indigeno Ailton Krenak stabilirono l’Alleanza dei
popoli della Foresta, per una lotta unificata per il diritto ai territori. Fu
incredibile: indigeni e seringueiros erano sempre stati messi gli uni contro
gli altri. Superare questo dolore – che allora sanguinava ancora – fu una
grande vittoria collettiva.
Da quel processo nasce l’idea rivoluzionaria delle riserve estrattiviste
(aree forestale legalmente protette concesse alle popolazioni tradizionali). Di
cosa si tratta?
È un’idea di conservazione che permette alle persone di vivere dentro il
territorio. Fino ad allora c’era o il disboscamento o qualche area di
protezione integrale e le persone da un giorno all’altro perdevano il diritto
di svolgere attività lavorative o culturali nella propria casa. Chico e i suoi
compagni nel 1985 organizzarono a Brasilia il primo incontro nazionale dei
seringueiros, 130 raccoglitori di gomma vennero da Acre, Rondônia, Amazonas e
Pará e lì nacque il concetto di ‘riserva estrattivista’, per proteggere sia il
territorio sia le persone.
Quando furono istituite le prime riserve?
Le prime quattro nel 1990, l’ultimo giorno di mandato del presidente
Sarney, due anni dopo l’assassinio di mio padre. Lui lottò, versò sangue, diede
la vita, ma non riuscì a vederle nascere – sapeva che stava lottando per il
futuro. Oggi abbiamo 96 riserve estrattiviste sotto gestione federale e quasi
50 gestite da governi statali e municipali. Ci sono le riserve forestali e
quelle marine, perché sono inclusi anche i territori del Cerrado, le acque e i
mangrovieti.
Le riserve estrattiviste hanno ancora un senso?
Così come le terre indigene, sono una barriera contro il disboscamento
incontrollato che continua ad avanzare. Nello stato dell’Acre c’è la seconda
più grande riserva estrattivista del Brasile: la Chico Mendes, quasi un milione
di ettari. Si trova nella regione più deforestata dell’Acre, sotto pressione
dell’agrobusiness e dei fazendeiros: sulla mappa è un punto verde circondato da
terra bruciata. Questo è un modello che tutela la foresta e ha ispirato la
creazione delle foreste nazionali e di progetti di insediamento che mettono al
centro la conservazione e l’agroecologia.
Perché in Amazzonia il riconoscimento territoriale è cruciale?
I popoli originari e le comunità proteggono l’Amazzonia, ma i fazendeiros
li cacciano e uccidono. Il riconoscimento legale garantisce il diritto di
restare a chi già viveva lì, magari tagliando il lattice della gomma o
raccogliendo le castagne. È uno strumento necessario, anche se purtroppo non
sufficiente.
Quali altri progetti porta avanti?
Il Progetto Seringueiro ha alfabetizzato circa 18.000 persone dentro la
foresta, in un vuoto lasciato dallo Stato verso persone invisibili. Sapere vuol
dire uscire dalla schiavitù.
Giovani e donne sono al centro della vostra azione. Perché?
Il Brasile è al secondo posto per numero di attivisti uccisi; omertà e
impunità – rafforzati dall’ultimo governo di estrema destra – continuano a
mietere vittime. I giovani e le donne sono al centro perché contribuiscono
maggiormente alla protezione della foresta ma sono anche i più colpiti – dalla
crisi climatica e dalla violenza.
Suo padre tre mesi prima di morire scrisse una «Lettera ai Giovani del
Futuro», incitandoli a proteggere la vita e la foresta e a non arrendersi.
La «Lettera ai Giovani del Futuro» ci muove nel comitato e nel mondo,
perché senza una gioventù impegnata non abbiamo prospettiva di futuro. Abbiamo
bisogno di rinnovare le alleanze, il fare collettivo se vogliamo affrontare un
capitalismo che è sempre più selvaggio, forte, con potere, e che tenta di
metterci in competizione e di individualizzarci. La nostra forza è l’unione,
Chico lo ricordava sempre.
Il movimento “Jovens do Futuro” nasce da lì?
Chico nella lettera convoca la generazione attuale a dare avvio a un’ondata
rivoluzionaria. Jovens do Futuro lavora con educazione, comunicazione, cultura
e artivismo. È guidato da giovani ed è destinato ai giovani dell’Acre
provenienti da contesti marginalizzati, sia urbani che della foresta. Nel 2020
abbiamo organizzato un festival, con giovani di più di 20 Paesi. Nonostante
tutto, i giovani di oggi credono profondamente nel loro ruolo e si stanno
mobilitando. Questa è la nostra forza.
"Stillate, cieli, dall’alto, le nubi facciano piovere il Giusto; si apra la terra e germogli il Salvatore"
- Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa "Dio con noi". -
Il Vangelo di Matteo, ma anche, nella Prima Lettura, le parole del profeta Isaia, ci parlano oggi, quarta domenica di Avvento, dell'Emmanuele, Dio con noi, Dio fra noi.
Il Vangelo ci racconta in realtà anche del coraggio di Maria e della fede di Giuseppe.
Insomma, ci parla di famiglia e di comunità.
Emmanuel, mi fa pensare, inevitabilmente ad alcuni ricordi, alcuni lontanissimi nel tempo, un altro vicinissimo.
Il primo di più di 25 anni fa, la spianata di Tor Vergata, noi due, tra due milioni di giovani, nel loro giorno, nella loro notte.
Giovanni Paolo II, già molto provato, ma felice, noi tutti felici nel tramonto, nella notte tra le stelle, aspettando l'aurora, immergendoci nell'alba.
Ricordo Noidue e Noi tutti abbracciati.
Guardare il cielo e i nostri occhi. Pensare il mare.
Cantare sottovoce, nell'orecchio dell'altro, oppure tutti/tutte insieme a squarciagola:
Come rinasce noi la Fede, come recitava la canzone, cantata da tutti e composta da Marco Mammoli?
Ieri, grazie ad una preghiera condivisa, ho ripreso in mano un libro per me importantissimo.
Erano settimane che me lo portavo dietro, senza avere il coraggio di riaprirlo, rirespirarlo: si tratta del testo di Carlo Maria Martini e Georg Sporschill, "Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede".
Invece, grazie ad una serie di conversazioni notturne tra Pistoia e Parma e tra Parma e Parma, ho avuto il coraggio di riaprire il libro.
Il primo capitolo si intitola: "Quel che sostiene la vita".
Viene chiesto al cardinal Martini:
"Vi sono momenti in cui se la prende con Dio?"
Risponde Carlo Maria:
"Le mie difficoltà non hanno riguardato la sfera del quotidiano: quanto piuttosto un grande interrogativo: non riuscivo a capire perchè Dio lascia soffrire suo Figlio sulla croce.
Perfino da vescovo, a volte, non riuscivo ad alzare lo sguardo verso il crocifisso, perchè questa domanda mi tormentava. Me la prendevo con Dio.
La morte continua ad esistere, tutti gli esseri umani devono morire. Perchè Dio lo vuole? Con la morte di suo Figlio avrebbe potuto risparmiare la morte agli altri uomini.
Soltanto in seguito un concetto teologico mi è stato di aiuto nel mio travaglio: senza la morte non saremmo in grado di dedicarci completamente a Dio. Terremmo aperte delle uscite di sicurezza, non sarebbe vera dedizione. Nella morte, invece, siamo costretti a riporre la nostra speranza in Dio e a credere in lui. Nella morte spero di riuscire a dire questo sì a Dio."
La conversazione prosegue:
"Noi cristiani crediamo che tutto sia creato per amore: ma allora da dove viene il male? Perchè c'è tanta sofferenza?"
Risponde Martini: "Se osservo il male nel mondo, esso mi toglie il respiro. Capisco che se ne deduce che non esista alcun Dio. Soltanto quando contempliamo il mondo per quello che è con gli occhi della fede può cambiare qualcosa. La fede suscita l'amore, porta a battersi per gli altri. Dalla dedizione, malgrado la sofferenza, nasce la speranza.
A volte, a posteriori, sentiamo che il male risveglia nell'uomo energie positive. Considero parte del male le circostanze che portano all'esistenza di bambini di strada, senzatetto e richiedenti asilo, cioè sembrano non avere posto nel mondo.
Sono "peccati del mondo" anche le catastrofi naturali che falciano migliaia di persone. Ho constatato più volte tuttavia, che proprio questo male risveglia molte forze positive. I giovani si svegliano e affermano: voglio aiutare!
In questo caso il male tira fuori il meglio dalle persone. Non è una spiegazione soddisfacente, ma intuiamo che dalla sofferenza possiamo imparare molto".
Concludeva la sua risposta il grande Cardinale di Milano:
"Nessun essere umano può rispondere all'interrogativo sull'origine del male, se non per approssimazione: Dio ha donato all'uomo la libertà. Non vuole il robot, degli schiavi, ma dei collaboratori. Collaboratori che rispondono alle proposte con un "sì" o con un "no", che amano oppure non amano, senza costrizione" (...)
Ricordo, parlando, alle soglie del Natale, di Vita e di nascita, proprio Emmanuele.
In una grande capitale d'Europa, venti anni dopo Tor Vergata.
Ricordo Emmanuele, l'Emmanuel, Dio fra noi, ma anche un bimbo di fronte, sorpresa e carezza inaspettata, dono, mistero e luce lungamente attesa, amata, infinitamente, dal cuore immacolato e dal battito nel battito di una Madre, ancor prima che quel bimbo si manifestasse, scalciasse, sorridesse.
Ricordo che l'eco di quel canto, di venti anni prima, mi avvolse mentre incontravo, stupito e felice, negli occhi della sua mamma, quel bambino. Dio tra noi, Dio con noi.
E a quel bimbo, anche, ho pensato ieri.
Ho pensato anche ad altri occhi. Quelli che non dimentico mai.
Mano nella mano. Croce di fronte a noi. Santa Maria del Rosario.
Un Grazie soffiato di gioia.
Un Grazie donato, ricevuto.
Con Gioia.
Avvento, Attesa.
Non ci ho mai capito molto, sinceramente, dell'attesa, del silenzio opportuno.
Ma la Luce, la Vita, la Luce di un bimbo e anche la sua futura Croce per noi,
Dal riformismo autonomo al collateralismo di governo: la crisi culturale di un grande sindacato che ha smesso di pensarsi come soggetto critico e plurale nel conflitto sociale e democratico.
La crisi culturale e politica della Cisl è sotto gli occhi di tutti. Un grande sindacato, che nasce fondato sulla cultura dell’autonomia, del contrattualismo e del riformismo, è da alcuni anni collocato su di una deriva che scivola a destra, in un sostanziale collateralismo mascherato del governo della destra post missina.
L’assenza di dibattito e la tentazione del potere
Non c’è più dibattito interno perché l’intero gruppo dirigente sembra come abbagliato da quella confusa cultura sociale di matrice rautiana che ispira la nostra destra di governo, ma in realtà è più chiaramente forse attratto dalla lusinga del potere, come dimostra la parabola del precedente segretario generale divenuto improvvisamente sottosegretario del governo Meloni per meriti sul campo. È oggi impossibile sfuggire alla sensazione che anche l’attuale vertice dell’organizzazione stia lavorando per garantirsi un seggio parlamentare fra 2 anni.
Il “patto sociale” come foglia di fico
La proposta di un patto sociale lanciata nei giorni scorsi sembra l’ennesima foglia di fico per nascondere una totale mancanza di guida, di strategia, di ispirazione. È una proposta lanciata nel vuoto, senza adeguati contenuti, senza un percorso di reale dialogo, anzi ostentando la massima distanza possibile dalla CGIL, il maggior sindacato del paese. Senza un coinvolgimento anche minimo della UIL come in altre fasi è pure avvenuto.
Per parlare di concertazione bisogna anzitutto condividere una analisi comune con le altre maggiori parti sociali, dell’impresa e del lavoro. Oggi anche la Confindustria ha una posizione più autonoma da questo governo, il che è davvero paradossale.
La manovra di bilancio e l’adesione acritica
La manovra di bilancio, del tutto priva di ogni visione socio-economica e di azioni riformatrici, è solo tesa a razionalizzare i conti pubblici, per ottenere fra pochi mesi da Bruxelles il via libera a spendere in grave ritardo quasi il 50% delle risorse del PNR ancora congelate per grave inefficienza del governo e incapacità di accelerare i procedimenti di spesa pubblica a tutti i livelli.
Questo dicono i dati, malgrado la incessante propaganda di regime. Ed anche per accantonare un tesoretto da mettere in bilancio nel prossimo anno elettorale, e promettere di spendere, salvo poi realizzare assai poco.
E la Cisl che dice?
E la Cisl che dice? Dice che, tutto sommato, non si tratta di una cattiva legge di bilancio, perché migliora il trattamento fiscale del ceto medio, anche di tutti coloro che hanno un reddito superiore ai 60 mila euro. Dice che con altri piccoli ritocchi potrebbe quasi essere perfetta. Non ci si può credere, eppure è così.
La rappresentazione irreale del lavoro
Basta leggere ciò che è scritto poi, sui siti ufficiali dell’organizzazione riguardo al mercato del lavoro. A via Po ascoltano la propaganda di Tele-Meloni e si autoconvincono. Una situazione quasi rosea, nella quale non esiste la condizione penosa di migliaia e migliaia di giovani del Sud che, dopo studi brillanti, sono costretti ad emigrare all’estero; dove non esistono alcuni milioni di lavoratori sottopagati e dove, invece di battersi per un salario minimo, ci si trincera dietro il simulacro dell’autonomia della contrattazione, che la Cisl di oggi difende per principio anche quando le parti sottoscrivono accordi indecorosi, specie per la debolezza del sindacato, in molti settori di lavoro non qualificato.
Quando la Cisl era una scuola di pensiero
Un tempo la Cisl disponeva del miglior centro studi sindacale, dove hanno lavorato e sono cresciute figure come Tiziano Treu o Ezio Tarantelli, Guido Baglioni o Pietro Merli Brandini. La Cisl di Mario Romani e Giulio Pastore ha imposto alla politica gli accordi contrattuali come fonte normativa primaria nel diritto del lavoro e dell’economia.
Oggi cosa c’è di tutto questo? Neanche un vago ricordo.
Il pluralismo perduto
Un tempo la Cisl assicurava un permanente pluralismo interno, di ispirazioni e di culture. E in questo confronto-laboratorio in costante riflessione si esprimevano sindacalisti come Pierre Carniti o Franco Marini, Luigi Macario o Franco Bentivogli, Eraldo Crea o Sergio D’Antoni. Democratici cristiani, cristiano-sociali, socialisti riformisti, tutti fermamente antifascisti, con la schiena dritta e mai inclini verso la destra postfascista ingrassata con i denari di Berlusconi.
Oggi il gruppo dirigente appare grigiamente omogeneo, incapace del minimo dibattito interno ed esterno.
Ripensare il sindacato, il lavoro, il futuro
Il sindacato oggi è molto debole nel nostro Paese e in tutto l’Occidente. È necessario lavorare per riaprire il dialogo e il confronto con tutte le principali organizzazioni nel paese e in Europa. È necessario pensare al lavoro del futuro, alle nuove tecnologie che, se ben gestite, possono portare sviluppo e benessere.
È necessario pensare alla integrazione di milioni di stranieri per tutti quei lavori che i nostri giovani non vogliono più fare. È necessario ripensare la scuola perché si rafforzi come spazio essenziale per l’educazione civile e la formazione critica. È urgente ripensare al modello di welfare, per accrescere le responsabilità di ciascuno e realizzare una effettiva universalità delle prestazioni.
Serve una Cisl all’altezza della propria storia
Servirebbe, per tutto questo, davvero una Cisl consapevole della propria straordinaria storia, capace, ad esempio, di riunire i migliori giovani studiosi ed elaborare nuove idee e proposte, scevra da penosi servaggi politici.
Servirebbe, ad esempio, che la Fondazione Franco Marini non fosse solo una targa per coprire le vergogne, ma si animasse di lavoro intellettuale e organizzativo per sostenere una ripartenza consapevole.
Montecatini: ho scelto di linkare l'articolo del Tirreno e non quello della Nazione, perchè il titolo di quest'ultimo, più diffuso giornale nella provincia di Pistoia, recitava: "Caporalato made in Cina".
Invece no. Troppo semplice.
Vi consiglio, invece, di leggere attentamente, l'articolo è ben scritto e molto puntuale il Tirreno:
Visto che sono fresco di corsi deontologici dell'ordine dei giornalisti userò un nome di fantasia: Maria.
Un nome non casuale, mi si conceda, in questo tempo ormai prossimo al Natale.
Ho pensato questa mattina, mentre, comodo, al caldo, anzi mangiandomi una pizzetta, alla tanta, tantissima indifferenza che incontro.
Indifferenza su di me, ovviamente, si vive tutto prima quello che ci accade in prima persona, ma indifferenza, direi, in generale.
Anche su noi stessi.
Torniamo a: "Maria".
Me lo sono immaginato il: "laboratorio degli orrori", così ben descritto nell'articolo.
Certo, in questo caso, e non siamo nemmeno a Prato: cinese.
Cinese come Maria. Carnefici e vittime.
Indifferenza e coraggio.
Ho pensato a quel dito mozzato.
Ad una donna abbandonata a se stessa al pronto soccorso.
Al freddo.
Tra una folla di volti non conosciuti.
Senza parlare bene, forse, la lingua italiana.
Ma, a volte, anche noi che ci siamo nati con la lingua italiana, le parole non le troviamo.
Non le troviamo di fronte alla menzogna che copre molestie e violenza nei luoghi di lavoro.
Non le troviamo di fronte ai laboratori dell'orrore che, tutti, tutti sanno, tutti sappiamo dove sono.
Non le troviamo quando compriamo una maglietta online a sette euro senza spese di spedizione, dall'altra parte del mondo, e non ci chiediamo da dove viene, chi la ha prodotta, con quale catena di fornitura e del valore è stata confezionata, in che modo arriva nelle nostre case.
Non le troviamo, non le abbiamo trovate, nemmeno di fronte all'immondo: "scudo per le imprese italiane della moda", così immondo che, perfino questa maggioranza di governo, per ora, non se la è sentita e lo ha ritirato.
Ecco, io di fronte al coraggio di "Maria" la parole, invece, le trovo.
Occorrerebbe, tra Prato e Montecatini una grande inchiesta: sul lavoro nero, sull'economia del lavoro nero e del "terzismo", sull'intreccio tra malavita italiana, russa e cinese, su condizioni di lavoro che si vivono nel capitalismo dello scarto, da ben prima dell'immigrazione cinese.
Troppo facile.
Poi certo, c'è anche, chi lo nega, un problema/tema specifico relativo alla comunità cinese che riguarda molti aspetti: il lavoro, la legalità in generale, la reciproca integrazione, la scuola, i giovani, gli anziani, etc.
Mi sono occupato, anche a livello apicale, nazionale ed europeo, e per decenni, di lavoro sommerso, di emersione, di "cabine di regie", "sinergia tra gli ispettori", "banche dati", cooperazione transfrontaliera, etc. etc. etc.
Il lavoro nero è un po' come la salute e sicurezza sul lavoro: tante parole, spesso di circostanza, e pochi, pochissimi fatti.
Perchè, purtroppo, il lavoro nero, nell'economia turbocapitalista dello scarto conviene.
A tutti, tranne che ai lavoratori e alle lavoratrici, agli sfruttati invisibili del mercato selvaggio, locale e globale.
Dove è la rappresentanza?
Dove si tocca con mano la democrazia?
Che ne è della nostra Costituzione?
Io, sinceramente, di rappresentanza, democrazia e Costituzione, tra Prato e Montecatini, passando per Pistoia, vedo poco.
Pochissimo. Quasi nulla.
Vedo l'orrore della complice indifferenza.
E poi vedo "Maria".
Il coraggio di una donna.
Cinese.
Un coraggio che ci insegna e che va ascoltato, respirato, sostenuto, amato.
Tiriamoci su le maniche, non fa nemmeno tanto freddo, c'è il riscaldamento globale.
Studiamo il percorso del tessile, dall'origine, fino agli smaltimenti illegali e nocivi, per tutti e per tutte.
Per i nostri figli e i nostri nipoti.
Tiriamoci su le maniche, riapriamo spazi di democrazia e rappresentanza.
Non è facile, anzi è parecchio difficile, complesso, per carità.
Un'utopia, tra Prato e Montecatini, passando per Pistoia, si direbbe.
Ma l'utopia, c'è chi ha scritto, ben prima di me:
"E' il cammino, l'orizzonte quotidiano che compiamo e osserviamo per raggiungerla".
Riaccendiamo la luce nel buio.
Torniamo a riscoprire il coraggio di guardare le stelle.
Torniamo a incontrare, a parlare, in qualsiasi lingua, un dialogo di pace e dignità con "Maria".
Non solo a Montecatini. Non solo a Prato. Non solo a Pistoia.