Ieri, arrivato a Trieste per altre ricerche, pieno di nostalgici e piacevoli ricordi universitari, ho potuto partecipare a un'interessante iniziativa delle Acli del capoluogo giuliano, nell'ambito dei festeggiamenti e degli approfondimenti legati all'ottantesimo della loro fondazione.
Si discuteva con l'introduzione di Erica Mastrociani e le relazioni di Francesco Russo e Raul Pupo, di una figura che già conoscevo abbastanza bene, ma che mi ha ulteriormente incuriosito: Don Edoardo Marzari.
Si tratta di un sacerdote, come è stato giustamente detto ieri, nella saletta delle conferenze della Regione Autonoma del Friuli Venezia Giulia, in piazza Oberdan, la cui ricca biografia ha poco da invidiare ai Don Milani e ai Don Mazzolari, a Don Minzoni, per citare solo alcuni sacerdoti "sociali" molto conosciuti.
Nato a Capodistria nel 1905 e scomparso a Trieste nel 1973, Don Mazari è una figura ricchissima, su più fronti, non tutti ecclesiastici, ma anche molto, molto laici (e quanto ci sarebbe da discutere su questa ultima parola!)
E' tutto da leggere il suo articolo del 1939 sul settimanale diocesano Vita Nova, da lui diretto, che gli causò la persecuzione fascista.
Davvero eclatante, a livello nazionale, è quello che successe il 13 giugno 1944, quando divenne, incredibilmente su principale proposta comunista, il primo (e credo unico) sacerdote a capo di un CLN (Comitato di Liberazione Nazionale Partigiano) in Italia.
Come è scritto sul sito nazionale dell'Anpi:
"il sacerdote diede un grande contributo nell'organizzazione delle formazioni della Resistenza e nel loro rifornimento in armi, denaro e viveri.
Don Marzari seppe anche superare, nello spirito della comune lotta contro il nemico, le frizioni con i partigiani comunisti, maggioritari in quella zona di confine.
Nel febbraio del '45, il presidente del CLN cadde nelle mani dei fascisti della "banda Collotti". Rinchiuso nel carcere del Coroneo, l'esponente della Resistenza giuliana fu inutilmente interrogato e torturato dalle SS.
La sua sorte pareva ormai segnata, ma la sera del 29 aprile, i partigiani della Brigata Ferrovieri riuscirono a liberarlo.
Il mattino dopo fu don Marzari a ordinare, dalla Prefettura, l'insurrezione che avrebbe portato alla liberazione di Trieste dai nazifascisti."
Ma Don Mazari è anche un raro caso di sacerdote dirigente sindacale (non mero accompagnatore spirituale).
Nel giugno del 1945, fondò la Camera del Lavoro di Trieste e fu il primo segretario della CGIL (unitaria, con le diverse componenti cristiana, socialista e comunista) triestina.
Sulla specificità e sull'anomalia (anche etnica, ma non solo) del sindacalismo confederale a Trieste si potrebbero scrivere, includendo anche gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, non libri, ma enciclopedie, come ho provato a ricordare ieri, nel mio intervento.
Intervento nel quale ho riflettuto anche sul tema della violenza nella Resistenza cattolica, provando a stilare un parallelo non semplice tra Don Marzari e Giuseppe Dossetti, il partigiano "Benigno", di cui ieri ricorrevano i ventinove anni dalla morte.
Don Marzari fu anche tra i fondatori del Circolo della Cultura, dell'Università popolare, della Lega nazionale e delle ACLI (di cui, è stato ricordato ieri da Erica, è stato Presidente triestino dal 1946 al 1950).
Per le sue idee progressiste il sacerdote (che aveva fondato, tra l'altro, l'Opera Figli del Popolo, per assistervi laicamente ragazzi bisognosi), subì, nel 1955, un, per fortuna provvisorio, allontanamento coatto dalla città, intimato dall'allora Vescovo di Trieste.
Ma il vero capolavoro pedagogico di Don Marzari fu la sua "Repubblica dei ragazzi", che, per alcuni specifici e non assoluti aspetti, lo può avvicinare a Don Lorenzo Milani e rispetto alla quale rimando ad un bell'articolo pubblicato dal quotidiano triestino Il Piccolo, interamente consultabile online: https://www.ilpiccolo.it/cronaca/la-repubblica-di-don-marzari-modello-di-democrazia-g2qjinn6
Mentre raggiungevo Piazza Unità d'Italia, le rive e il mare, circondato dalla bellezza multiforme di Trieste, mi sono ricordato che proprio a Trieste sarei dovuto andare alcuni mesi fa.
Ero stato, infatti, invitato al congresso nazionale della Cisl Scuola, e non vedevo l'ora di partire.
Poi, un evento sindacale internazionale concomitante, mi ha costretto a rimandare il viaggio nella città di Svevo.
Ieri è stato anche il giorno, a Roma, dell'intitolazione a Roma, di una sala presso la Cisl Scuola dedicata all'ex segretaria nazionale Paola Serafin, scomparsa prematuramente nel mese di agosto di quest'anno.
Di Paola parlano molto sia la Vita che la Morte.
Una vita appassionata, che io ho incrociato spesso, occupandomi, per la Cisl, prima a livello nazionale e poi anche europeo, di educazione degli adulti e formazione, nelle sue varie declinazioni, deleghe da lei presidiate nella categoria.
Paola c'era sempre, con la sua specifica competenza sulla tutela e la valorizzazione dei dirigenti scolastici, l'attenzione alla formazione e, quando poteva, anche alla dimensione internazionale.
Con una competenza tecnica che si fondeva con la gentilezza e l'orizzonte di senso.
I suoi corsivi sono stati, opportunamente, pubblicati dalla Cisl Scuola e sono scaricabili qui:
https://www.cislscuola.it/news/dettaglio/article/i-corsivi-di-paola-serafin/
Ricorderò sempre una lunga e bella discussione tra noi in un pranzo di un corso nazionale di formazione della categoria, a Riccione.
Dibattevamo appassionatamente, io e lei, ammutolendo gli altri commensali, del ruolo dei servizi nel sindacato.
Io venivo da una ricerca europea, pieno di certezze e, pensavo, di proposte opportune e innovative, proprio sul concetto dei "servizi collettivizzanti" che avevo presentato durante il corso nazionale.
Paola che concordava su molto, ma non su tutto, mi fece delle opportune osservazioni, un bagno di realtà.
Alla fine, credo, entrambi avevamo cambiato il nostro punto di vista di partenza, trovandone, insieme, uno più avanzato, forse più complesso, meno trionfante (per quel che mi riguarda), ma più ricco.
Rispetto alla morte di Paola che ho visto e accompagnato da lontano, nel pieno del mio conflitto con la Cisl, possono dire molto più altri di me.
Paola scriveva parole di futuro, generative, quando sapeva che le rimanevano poche settimane di vita.
Non le scriveva e basta, però, le viveva.
Ha vissuto la Vita fino all'ultimo, non so se avesse il dono della Fede, ma poco importa.
Ha saputo Vivere la Morte, restituendo Vita, anche nella sofferenza, con il suo indimenticabile sorriso.
Chissà se ora, con Edoardo, da lassù sta organizzando una; "nuova Repubblica dei ragazzi e delle ragazze".
Una "repubblichetta", per carità, come la chiamava Don Marzari, una "scuolina", come definiva Barbiana don Lorenzo Milani.
Stamattina alle cinque, nel nostro ormai condiviso "alzarci all'alba" (e anche, forse un po' prima :-) ), una sindacalista della Cisl, mi ha scritto: "Noi dobbiamo stare bene, Francesco, con le persone in basso. Le altezze mi spaventano".
Non so, non credo, conoscesse Paola Serafin, non credo, magari mi sbaglio, ha avuto buoni formatori, conosca la storia di Don Edoardo.
So solo che se è vero che dicendo dei no, si dicono dei grandi sì, è ulteriormente vero che: è "stando in basso", magari nel "pozzo" con le persone, che si incontrano, si osservano, si vivono le vere altezze.
Alzando lo sguardo, nel cielo di Trieste: don Edoardo e Paola, ci indicano un sentiero e un volo.
Sta a noi, a Pistoia, come a Parma, come a Trieste, come in ogni luogo d'Italia o del mondo, fare memoria delle nostre radici, delle nostre persone, per dispiegare le nostre ali.
Abbracciando il futuro di tutte/tutti e di ciascuno/a.
Francesco Lauria









.jpg)








Ho conosciuto la storia di Concetta Candido attraverso un libro “Concetta, una Storia operaia” di Gad Lerner. La storia che Lerner racconta è una storia che conosciamo molto bene, è una storia esemplare che ha a che fare con tutti noi , molto più di quanto siamo disposti a credere. Gli uomini e le donne come Concetta sono i nuovi operai, senza sindacati né tutele, protagonisti involontari di una corsa al ribasso nel precariato, nel lavoro nero e nelle retribuzioni. Ed è forse significativo che il fuoco di Concetta sia divampato nella stessa città marchiata dal rogo della ThyssenKrupp, che anticipò la metamorfosi sociale in atto ormai da decenni nel nostro Paese..
“Darsi Fuoco”! quella di Concetta è una storia simile a molte altre.
Da Jan Palach che si diede fuoco il 16 gennaio 1969 in segno di protesta contro l’invasione di Praga. Fino a Mohammed Bouazizi, l’ambulante tunisino che si diede fuoco nel 2011, innescando la Primavera araba. Il monaco buddista Thich Quang Duc, a Saigon, nel 1963, contro il regime sudvietnamita. Era il 10 febbraio 1977, trentesimo anniversario del Trattato di Pace che sanciva la spartizione dell’Europa, lo studente, di 27 anni, Alain Escoffier, si diede alle fiamme a Parigi, sugli Camps Helisée, davanti alla sede dell’Aeroflot (compagnia aerea sovietica), anche lui per protesta contro il comunismo. Un anno fa a Lione, uno studente di 22 anni, Anas Kournif, iscritto a Scienze politiche, ha attuato il suo gesto estremo per protestare contro la precarietà e le politiche del governo Macron. Ha scelto di morire di fronte al Crous, l’opera universitaria che si occupa della vita degli studenti. Per arrivare a , il 23 ottobre scorso, un autotrasportatore di 38 anni di Monigo (Treviso). Alla base del gesto estremo dell’uomo, coniugato e padre di una ragazzina, ci sarebbe la disperazione per alcuni gravi problemi di salute che gli avrebbero impedito di continuare a lavorare come camionista e, quindi, di mantenere la sua famiglia.
E in casi come quelli del camionista di Treviso o di Concetta Candido regna il silenzio dei media.. Poche parole sui social o su qualche veloce flash di agenzia, privo di commenti e riferimenti. Fatti e gesti liquidati come “gesti folli”, frutto di “menti deboli”, roba da “cronaca nera “…
E sempre a proposito di “dare fuoco”.. nei paesi del Maghreb migranti “clandestini” vengono chiamati col termine harrag, harraga, derivanti dal verbo dell’arabo classico harraqa, che significa “bruciare”, “incendiare”. Traducibile come “colui/coloro che bruciano”‘ il vocabolo sta a indicare i migranti irregolari, illegali, non autorizzati. Si e ipotizzato che siano stati chiamati così perché un tempo prima di partire bruciavano i documenti d’identità.
Vi segnalo anche un libro interessante , quello di Annamaria Rivera “Il fuoco della rivolta: torce umane dal Maghreb all’Europa”‘ pubblicato da Dedalo.
Marino Severini